Diario missionario

p. Antonio Germano Das sx
un missionario tra i fuoricasta del Bangladesh

Das 1Sono venuto a conoscenza di padre Antonio per puro caso e grazie ad un nostro grande amico comune, Lucidio Ceci. Nell’ottobre del 2018 abbiamo organizzato a Montegiorgio un convegno sulla missione dedicato a Lucidio che ci aveva lasciati nel febbraio del 2014. Fu in quell’occasione che rivolgendomi ad alcuni contatti missionari che avevo ancora in Bangladesh, qualcuno di loro mi scrisse che un certo p. Antonio Germano, missionario saveriano, stava traducendo in italiano una serie di racconti che Lucidio aveva scritto in bengalese per gli alunni delle sue scuole. Ovviamente cercai di contattarlo immediatamente perchè interessato alla pubblicazione di quei racconti. Fu così che siamo rimasti amici. Ora che il Coronavirus ci costringe a stare in casa, a noi qui in Italia, ma anche in Bangladesh, p. Antonio ogni tanto mi manda pagine del suo diario che narrano la sua storia missionaria sin da quando è arrivato in Bangladesh, nel 1977.

Chi è p. ANTONIO GERMANO DAS sx

P. Antonio Germano nasce a Duronia (CB) in Molise il 16. 09. 39. Vive la sua infanzia negli anni difficili della guerra e grazie alla testimonianza del suo parroco don Alfredo Ricciuto entra in seminario; prima nel seminario diocesano di Trivento (CB) e poi nel seminario regionale di Chieti per diventare sacerdote diocesano. Ma al termine del secondo anno di teologia matura la decisione di diventare missionario saveriano.

Entra quindi in noviziato a Nizza Monferrato-Asti e dopo la professione religiosa conclude gli studi teologici a Parma, dove viene ordinato sacerdote il 25.10.64. Viene quindi inviato nella scuola apostolica di Vicenza (’65-’69) col compito di insegnante nelle scuole medie.

Frequenta contemporaneamente l’Università degli Studi di Padova, dove si laurea in lettere moderne con una tesi su Clemente Rebora. Viene quindi inviato a Cremona, sede dell’istituto magistrale per gli studenti saveriani e per sei anni (1969-1975) insegna letteratura italiana e latina.

Poi nella seconda metà degli anni settanta, dopo un periodo trascorso negli USA per apprendere l’inglese, il 25 aprile del 1977 corona il suo sogno missionario e si reca in Bangladesh, dove vive tutt’ora, dopo ben 43 anni ininterrotti di missione tra i fuori casta.

La prima missione che gli venne assegnata fu la difficile missione di Borodol, nel sud ovest del paese, dove resterà per 12 anni, i cui primi 3 anni da solo. Borodol era una missione che era stata abbandonata 7/8 anni prima e dove in precedenza aveva lavorato come missionario anche Lucidio Ceci negli anni terribili della lotta di liberazione contro il Pakistan.  La  missione era costituita da “fuori casta”, che in quella zona si chiamano Muci, la cui sola pronuncia della parola suscita ripugnanza in chi l’ascolta, al punto che, quando la gente sente questa parola sputa per terra come se al suo naso arrivasse un tanfo insopportabile. Scuoiano e trattano pelli di capre e di mucche, che poi vendono a commercianti musulmani, i quali ne traggono un gran profitto. Fanno anche il mestiere di calzolaio, lustrascarpe o scaricatori al bazar. Padre Antonio, in questa sua prima esperienza missionaria, si immedesimerà talmente con loro da essere definito “il padre dei Muci

In una intervista del 2005, descrive così questo sua prima esperienza missionaria: “Mi trovavo finalmente sul campo e avevo il primo impatto con una realtà sconcertante, che d’allora in avanti avrebbe costituito la vera sfida alla mia pretesa missionaria! Lo spettacolo che mi si presentava era quello di un ammasso di capanne (il quartiere dei cristiani), addossate le une alle altre, più simili a tane di animali che ad abitazioni. Dentro e fuori le capanne, la gente – i miei muci – che pur diventati cristiani, non erano comunque riusciti ad affiorare ad uno stadio di vita più umano. Anche se le situazioni di miseria si rivelano identiche in tutte le latitudini, quella che si presentava a Borodol a me appariva unica e mi interpellava fortemente. Quale missione intraprendere? Quella della Parola o quella del Pane? Non c’era tempo per molte discussioni e le scelte s’imponevano con urgenza. Mi viene in mente il suggestivo monito di Bonhoeffer, il teologo tedesco assassinato dai nazisti nel 1945: “Noi cristiani non potremo mai pronunciare le parole ultime della fede, se prima non avremo pronunciate le parole penultime della giustizia, del progresso e della civiltà”. Un messaggio antico quanto il vangelo.”

Durante questi 12 anni padre Antonio cercherà di migliorare la vita della comunità muci con diversi progetti sociali appoggiati e finanziati dalla Caritas bengalese.

Dopo un ripensamento sul modo con cui aveva gestito la sua prima esperienza missionaria fra i fuori casta cristiani di Borodol, che lui stesso ebbe a definire “la preistoria della missione”, in una fase più matura cercherà di impostare in modo diverso il proprio modo di agire al fine di attuare una missione disarmata e cioè una missione disancorata dagli aiuti da dare alla gente e più ancorata sull’incontro con la gente.

In questa seconda fase si trovò a condividere l’azione missionaria di un suo confratello che si era collocato in un ambiente del tutto musulmano, ma pur sempre tra i fuori casta, e che aveva costruito la cosiddetta “Casa della Speranza” (in bengalese: Ashar Bari) per disabili.  In Bangladesh ci sono tanti mendicanti, storpi e disabili di vario tipo, che riempiono le strade mendicando. La Casa della Speranza era stata costruita per loro. All’origine di questo progetto c’era il desiderio che questi disabili imparassero un mestiere e si costruissero un futuro senza mendicare sulle strade. Certo non si poteva risolvere il problema di tutti, ma si trattava di un tentativo che si collocava sulla linea della testimonianza evangelica.  La missione di Chuknagar era stata aperta nel 1980. I fuori casta della zona avevano sentito parlare dell’attenzione che i missionari avevano per quelli che come loro erano i reietti della società ed una loro delegazione era andata nella missione più vicina chiedendo ai padri di farsi presenti anche in mezzo a loro. Il padre responsabile della missione aveva risposto positivamente dicendo: “Sì, io verrò, ma non per farvi cristiani. Se i vostri figli hanno bisogno di andare a scuola, noi vi diamo una mano”. Con questo suo modo di parlare il padre ci teneva a sottolineare che il discorso religioso non andava confuso con quello di assistenza sociale.

Nella zona in cui si trova la missione di Chuknagar, dove attualmente p. Antonio Germano lavora, c’è una larga concentrazione di fuori casta: si calcola che siano intorno ai 200 mila. Essi assumono vari nomi a secondo del lavoro che fanno. Nella regione di Chuknagar essi sono registrati all’anagrafe con il cognome di Das, che significa “schiavo” e ciò vuol dire che se uno è Das,  Das deve rimanere. Il fenomeno delle caste è una realtà più che mai ancora viva sia in India che in Bangladesh. Si calcola che in India i fuori casta siano 150 milioni e in Bangladesh si aggirano intorno ai 5 milioni. Uno dei nomi con cui attualmente tutti i fuori casta amano identificarsi ed è diventato quasi un grido di battaglia è quello di Dalit, che è un participio passato nella lingua bengalese e significa: stritolato, spappolato, ridotto in polvere e descrive molto bene la situazione in cui i fuori casta si trovano e da cui vogliono emergere per essere considerati uomini come tutti gli altri.

L’attività principale della missione di p. Antonio e dei suoi confratelli si situa pertanto nella linea della coscientizzazione. Ci sono due ricorrenze che vengono celebrate con  particolare enfasi in quanto momenti di coscientizzazione collettiva molto importanti. Esse sono il 10 dicembre, giornata mondiale dei diritti umani e il 21 marzo, che è la giornata contro la discriminazione razziale. I missionari insieme alle popolazioni dei fuori casta sfilano per i centri delle città anche con cartelli e slogan. P. Antonio ama raccontare in modo particolare una di queste occasioni diventata per lui e per la sua gente memorabile: il 10 dicembre del 2006. “Dopo aver sfilato per le vie della città, – racconta p. Antonio – ci ritrovammo in un salone per un momento di riflessione e di valutazione. Quando arrivò il mio turno di prendere la parola, esordii in questo modo: “ Dopo tanti anni che sono con voi, penso che anch’io abbia acquisito un diritto”. Tutti mi guardano increduli, come per dire: “Ma l’uomo bianco che diritto può ancora acquisire?” Poi continuai: “Sì, anch’io ho acquisito il diritto di chiamarmi come voi Das !” Vidi che i loro occhi si illuminarono e, con un fragoroso battimano mi accolsero nel loro novero. Così da allora in poi mi firmo Antonio Germano Das.”

Scrive ancora p. Antonio ripercorrendo i suoi 43 anni di testimonianza tra gli ultimi della terra: “Ripercorro velocemente gli anni della missione, per tentare un bilancio e mettermi in atteggiamento di ascolto, per dare una risposta di fede al momento che sto vivendo. Trovo in questa avventura di fede una costante che lega insieme tutti gli avvenimenti: l’entusiasmo per la missione, che si presenta sempre con nuovi risvolti e nuove sfide ed esige quindi da me una continua novità di vita. Il terreno della mia missione è stato quello degli ultimi, degli esclusi e, in particolare, coloro che – con termine legato alla tradizione millenaria di tutto il continente indiano – sono chiamati muci, per il mestiere dei loro antenati: quello di scuoiare carogne di animali: mucche, capre ed altro. Questo mestiere, insieme ad altri, era ed è considerato ancora un affare impuro e imprime un marchio indelebile in chi lo esercita e nella progenie. Tra gli impuri ho vissuto tutti i miei anni missionari. Amandoli, mi sono purificato.”

Padre Antonio Germano è stato confratello e grande amico di Lucidio Ceci di circa 12 anni più anziano di lui. In particolare ne ha sempre apprezzato la sua attività di scrittore a servizio degli ultimi, fino a decidere, a qualche anno dalla morte del suo vecchio amico, di tradurre in italiano alcuni dei suoi racconti, quelli che qui pubblichiamo e che padre Antonio così presenta:

“L’autore di queste novelle o racconti che io ho tradotto dal bengalese, Lucido Ceci,  ha speso tutta la sua vita, fino alla morte, nella sua missione educativa tra gli ultimi.

Oltre ad una vasta raccolta di novelle, oltre 500, per bambini e bambine di scuola primaria, sempre sul tema educativo abbiamo di lui vari libri. Uno dei primi scritto in un bengalese semplice, alla portata di tutti, porta il titolo Bokabole gorib e cioè: Poveri perché ignoranti. Un altro, scritto per le donne, porta il titolo Amrao manush e cioè: Anche noi siamo esseri umani. Nei suoi primi anni di missione a Borodol, la capitale dei Muci (fuoricasta) nel sud del Bangladesh, a metà degli anni sessanta, aveva scritto per i cristiani di Borodol una sintesi della storia della salvezza dal titolo Nuton Manusher Abirbhabe cioè: L’avvento dell’Uomo Nuovo. E’ un testo ancora molto valido, senza uguali finora qui in Bangladesh, nella narrazione del messaggio della salvezza. Anch’io l’ho adoperato come testo fondamentale nella preparazione dei catecumeni al battesimo.

Il metodo educativo usato da Lucidio Ceci è quello del ‘golpo’ cioè della ‘storiella’, così cara al mondo orientale e quindi anche a quello bengalese. Il golpo (la storiella) contiene sempre un messaggio. Nel caso delle novelle o dei racconti, che io sto traducendo, l’autore prende il materiale non solo dal mondo culturale bengalese, ma anche da altri contesti, purché abbiano un messaggio educativo

Padre Antonio Germano si trova tutt’ora in Bangladesh nella missione di Chuknagar.

 

 Diario missionario – pagine d’archivio

 

INTRODUZIONE ALL'EPISTOLARIO

Un passatempo ed un desiderio di rileggere a distanza un’epoca della mia storia missionaria sono state le ragioni che mi hanno spinto a raccogliere queste lettere in una cartella. Una delle ultime volte che sono stato in Italia mi è venuta l’idea di fotocopiare le lettere spedite allora via posta aerea a mio fratello Mario, pensando che prima o poi avrebbero potuto servirmi.

E il momento è arrivato. Costretto all’isolamento e all’inazione in questo tempo calamitoso di pandemia, l’idea è riemersa e mi son messo al lavoro. Sono andato a ripescare la cartella che conteneva la fotocopia delle lettere e mi son messo a rileggerle. Mi sono accorto che contenevano squarci di storia, che, se non fissati, sarebbero andati persi per sempre. Sono le lettere del primo amore, scritte sulla riva del Kopotokko, il fiume della mia vita. Contengono tutta la passione per la mia gente, i Muci, con i quali ho cercato di identificarmi per riemergere con loro ad uno stadio di vita migliore, più umana secondo i dettami del Vangelo di Gesù.

Le lettere descrivono puntualmente i tentativi messi in atto durante i quasi 12 anni di presenza missionaria a Borodol. 12 anni nella cultura bengalese sono chiamati jug (il periodo conclusivo di un lasso di tempo; come da noi si dice: “nei secoli dei secoli”, così in bengalese si trova l’espressione “juge jugantore”) e i jug scandiscono il tempo. I primi tre anni sono rimasto da solo, poi altri padri son venuti a stare con me a condividere questa vicenda di salvezza. Come ogni storia, anche la mia storia con i Cristiani Muci ha avuto i suoi momenti di gioia e giubilo e i suoi momenti di passione e croce. Questi momenti vengono scanditi man mano che si va avanti nella lettura delle lettere. Momenti belli come il giubileo della fondazione della missione di Borodol celebrato nel Maggio del 1987 o come l’arrivo delle Suore di Madre Teresa di Calcutta, che prendono stabile dimora a Borodol nel 1989 e l’elevazione della missione di Borodol a Parrocchia, sempre nella stessa data, da parte del vescovo Michael D’Rozario. Ci sono stati anche momenti di lotta molto aspri come quando abbiamo cercato di estipare quella piaga sociale della nostra gente, costituita dall’avvelenamento delle bestie (per ricavararne la pelle) e dalla radicata abitudine di mangiare la carne in via di putrefazione delle stesse bestie avvelenate. Tutti questi eventi vengono narrati nelle lettere e fanno parte di questa storia avvincente.

Il prossimo 25 Aprile ricorre il 43° anniversario del mio arrivo in Bangladesh. Anche questa ricorrenza mi ha spinto a fare questo viaggio a ritroso nella speranza che quanti mi leggono siano spinti ad amare la nostra gente e a prodigarsi anche loro affinché in nostri fuoricasta, che, nel momento in cui scrivo, per me sono i Das, possano trovare pieno riconoscimento dei loro diritti in seno alla società bengalese.

p. Antonio Germano Das sx.

 

Khulna, 29.05.1977

Carissimi parenti ed amici,

Spero vi siano arrivate le due cartoline spedite una da Mosca e l’altra dal Bangladesh. E’ già passato più di un mese da che mi trovo immerso in questa nuova realtà e non ancora mi rendo perfettamente conto se è un sogno quello che sto vivendo. Prima di prendere in mano la penna ho voluto lasciare passare un po’ di tempo, perché non si sa esattamente da dove incominciare. Vi scrivo alla vigilia della mia partenza per Borisal, dove mi fermerò per circa un anno per imparare la lingua.

Durante questo periodo ho approfittato per fare una visita a tutte le nostre missioni ed avere una prima visione della situazione, in cui poi dovrò lavorare. Sono perciò passato anche in mezzo alle peripezie che fanno parte della nostra vita quaggiuù e sono come il pane quotidiano dei missionari. Come sapete, le strade qui mancano quasi del tutto e ci si muove quasi esclusivamente attraverso le vie fluviali con barche e battelli, quasi sempre carichi all’inverosimile.

Sarebbe troppo lungo narrarvi tutte le piccole avventure e quasi impossibile riferirvi l’enormità dei problemi di questo popolo. Vi basti pensare che per raggiungere un villaggio che si trova a circa 50 km. da Khulna ho impiegato circa 6 ore di battello, che andava zigzagando nel fiume per raggiungere i villaggi, posti lungo le due sponde. Qui, data la vicinanza dell’oceano, l’alta marea risale fino a 200 km. all’interno lungo il corso dei fiumi perché il suolo è tutto piatto. E il fenomeno dell’alta e bassa marea si ripete ogni 6 ore. Può accadere perciò che ci si mette in barca con l’alta marea e si arriva a destinaione con la bassa marea; poi per raggiungere la sponda del fiume bisogna affondare i piedi nella melma, perché l’acqua si è ritirata e non consente alla barca di accostarsi alla riva. Alle volte ci si mette in macchina o in moto e improvvisamente ci si trova sbarrata la strada da un fiume, naturalmente, senza ponti. Allora, se si è in moto, la si carica sulla piccola barca-traghetto e si passa all’altra sponda; se invece si è in macchina  e non c’è il ferry-boat (nave-traghetto), si lascia la macchina in qualche posto e si continua con altri mezzi di fortuna. Capita anche che non si trova neppure una barca e allora si passa il fiume a guado come già mi è capitato.

In tale situazione voi capite bene che scarpe e calze non servono a nulla. Si va sempre con i sandali ai piedi che sono più pratici. Naturalmente qui la quasi totalità della gente va scalza. Mi è già capitato di farmi rimorchiare in moto. Guidava comunque un altro padre, perché io non mi azzardo ancora. Qui le strade sono sempre una marea di gente, che spunta fuori da tutti i buchi e bisogna avere molto più accortezza che in Italia nel guidare. A quasi 15 km. da Jessore abbiamo bucato e non avevamo con noi gli attrezzi per riparare la ruota. Eravamo nel pieno mezzogiorno con un sole che spaccava il cervello. Finalmente passa un camion e ci lasciamo caricare con la moto per raggiungere Jessore. La visita ai villaggi poi è stata una cosa estremamente interessante e come il primo assaggio di quella che sarà poi la mia vita normale. Ho provato un po’ di utto: a mangiare con le mani senza posate, a bere un po’ tutti i loro intrugli e a dormire sulle stuoie. Mi diceva il padre che mi accompagnava in questo viaggio: “Se non prendi il colera in questi giorni, non lo prenderai più”! E’ stata come la prova di fuoco ed il mio fisico ha reagito meravigliosamente.

In ogni stazione missionaria ci sono in media tre padri e vi si svolge un’attività che lascia veramente sorpresi. La missione è un centro di studi, è un laboratorio, dispensario, scuola tecnica, azienda agricola, banca di deposito. Ma adesso dovrò partire e restare ancora un po’ lontano da questa realtà, perché lo studio della lingua mi assorbirà per circa un anno. Se non si conosce la lingua, si fa un buco nell’acqua. Soltanto negli uffici governativi s’incontra gente che conosce l’inglese, la gente comune parla solo bengalese. Ancora dunque un periodo di attesa, che certamente non mi peserà, perché questa realtà non potrà più sfuggirmi. Anche al clima mi sto adattando senza difficoltà, anche se sono capitato proprio nel periodo pù caldo: si gronda sempre di sudore e si è sempre bagnati.

Penso che per questa prima volta vi avrò annoiato abbastanza e perciò mi fermo, anche se tante sono le cose che premono sulla penna, in maniera particolare la condizione di assurda miseria che grava sulla quasi totalità di questo popolo. Spero che stiate tutti bene così come vi ho lasciati. Vi ricordo sempre e tutti e per ciascuno in particolare ho la mia preghiera. Vi abbraccio tutti caramente. Vostro Antonio.

 

Borishal, 10.07.1977

Carissimi,

Purtroppo le mie risposte non possono essere così puntuali come vorrei, perché la gente verso cui sono in debito di scrivere è tanta ed il tempo che ho a mia disposizione è molto limitato. Mentre vi scrivo sta piovendo; la stagione delle piogge è cominciata circa 30 giorni fa con alcuni giorni di anticipo, pregiudicando la semina del riso. Per 20 giorni ha piovuto ininterromente: una cosa incredibile! Tutti dicevano: “Se continua così, tutto il Bangladesh andrà sotto acqua”. Fortunatamente ha smesso per qualche giorno ed ora ha ripreso , ma ad intermittenza; la stagione delle piogge però si estende fino a tutto ottobre, per cui l’alluvione qui è sempre una cosa possibile. La stagione delle piogge in Bangladesh è anche la stagione della fame. Qui la stragande maggioranza della gente vive alla giornata, per cui, se c’è buon tempo, va a lavorare nei campi e si guadagna quel poco per vivere, dato che l’agricoltura è l’unica risorsa del paese.

Appena arrivano le piogge, la gente incomincia a stringere la cinghia e, quando si cammina per le strade, nel volto della gente si legge la fame. Purtroppo io non ancora posso fare niente e sono ancora inchiodato alla sedia per lo studio della lingua, ma non vedo l’ora di trovarmi in mezzo a questa gente e condividere la loro sofferenza. Due cose ti impressionano quando arrivi in Bangladesh: la moltitudine della gente con la loro miseria e l’acqua, acqua e gente dappertutto. Recentemente jn una lettera a mio fratello Giovanni raccontavo il mio viaggio da Khulna e Borishal. Una volta al mese io ritorno a Khulna per partecipare all’incontro comunitario con i padri in cui discutiamo i nostri problemi. In linea d’area la distanza tra Khulna e Borishal non supera i cento km., ma non ci sono strade dirette, perché c’è una infinità di fiumi. Così la strada si allunga enormenente e i 100 km. sono più che raddoppiati. La prima volta da Khulna venni a Borishal via fiume e impiegai più di 18 ore. Alla fine di giugno sono tornato a Khulna in corriera ed ho impiegato 11 ore.

Per rendervi l’idea di una corriera bengalese ci vorrebbe un film a parte. Dentro, stretti come sardelle ed una temperatura tropicale; nel mio sedile eravamo seduti in tre ed io non potevo muovermi né avanti né indietro, né a destra né a sinistra. I finestrini, naturalmente, senza vetri e l’acqua entrava da tutte le parti. Gente sopra il tetto della corriera e gente aggrappata ai finestrini. La prima volta che vidi una corriesa bengalese mi chiesi se avrei mai avuto il coraggio di salirvi sopra, ora invece sta diventanto anche la mia realtà. Per andare fino a Khulna bisogna attraversare 5 grossi fiumi, che sono naturalmente senza ponti e si viene perciò traghettati da una sponda all’altra su grossi zatteroni. Pongo fine a questa puntata, che sembra una storia d’altri tempi ed è invece la realtà di tutti i giorni. Nessuna preoccupazione per me: non sono mai stato tanto bene e soprattutto tanto felice. Pregate per me. Un forte abbraccio. Antonio.

 

Borishal, 06.11.1977

Carissimi,

E’ probabile che mentre aspetto vostre notizie, anche voi aspettate le mie  e così nessuno dei due scrive. Perciò questa mattina mi son deciso a prendere in mano la penna. E’ passato molto tempo e intanto  sono accaduti avvenimenti molto importanti, il principale dei quali è stato il ,matrimonio di mio fratello Giovanni con Silvana. Mio padre mi scriveva dicendomi che era rimasto molto contento e che è stata una occasione per incontrare ancora una volta tutti i parenti.

Qui, finita la stagione delle piogge, il tempo si è fatto molto bello, anche se di tanto in tanto scoppiano dei violenti temporali. La situazione politica è sempre molto critica. Non so se fin lì è arrivata qualche notizia, ma nel periodo in cui c’è stato il dirottamento dell’aereo giapponese, in Bangladesh c’è stato il tentativo di un colpo di stato. Tutti gli ufficiali dell’aviazione militare furono uccisi e, per qualche ora, i ribelli si impadronirono della stazione radio. Poi i governativi presero il sopravvento. Probabilmente il tentativo veniva da parte di coloro che seguono una politica filo-russa e filo indiana, mentre l’attuale governo segue una politica filo-cinese e filo-occidentale. Ma è molto difficile capirci dentro qualcosa.  Nel frattempo molte condanne a morte sono state eseguite. Sembra, però, che ci saranno ancora altri tentativi per rovesciare il governo. Intanto continua ad essere in vigore la legge marziale: sono proibite le pubbliche adunanze e i processi si svolgono per direttissima dinanzi alla corte marziale. Ogni volta poi che ci si sposta da un posto all’altro bisogna avvisare la locale polizia. Speriamo tanto che il Bangladesh possa venire fuori bene dall’attuale crisi politica, perché già la condizione del paese è così miserabile che, se vi si aggiunge anche questa continua incertezza politica, si continuerà certamente a peggiorare.

Come già ho avuto occasione di dirvi, il mio corso di bengalese durerà fino alla fine di aprile e poi… allo sbaraglio! Molto probabilmente mi verrà assegnata una missione che si trova ai margini della jungla. Alla fine di ottobre sono andato a farvi un giro di ispezione: non ci sono strade e gli unici mezzi di trasporto sono le barche. Il posto mi piace tanto: ci sono 3 mila cristiani sparsi in una diecina di villaggi, ognuno dei quali ha la sua chiesetta, che serve anche da scuola. Ora spero soltanto che questi mesi passino in fretta, anche se quello che sto facendo è importantissimo, perché senza la conoscenza della lingua non si può far niente. Spero di ricevere presto vostre notizie. Intanto vi raccomando al Signore nella mia preghiera e vi abbraccio tutti. Vostro Antonio.

 

Borishal, 01.01.1978

Carissimi,

Di ritorno da Khulna, dove mi sono fermato una quindicina di giorni, ho trovato la vostra lettera e mi ha fatto grandissimo piacere sentire ancora una volta da voi. Sono contento che vi sia piaciuta la borsa in juta che vi avevo spedito alcuni mesi fa. Molti di questi lavoretti cerchiamo di esportarli anche all’estero in maniera che quelli che vi lavorano possano guadagnarsi da vivere. Come vi dicevo, sono stato una quindicina di giorni a Khulna, dove ho trascorso il mio primo Natale in terra di missione.

Da Khulna mi sono recato in quella che con tutta probabilità sarà la mia prossima missione e cioè SHELABUNIA, che, come vi dicevo l’ultima volta, si trova ai margini della giungla. Il 23 dicembre, dopo 5 ore di vaporetto, sono giunto alla missione, dove c’erano altri 3 padri, che mi hanno accolto con festa. Dal centro della missione dipendono una diecina di villacci e così ci siamo divisi il lavoro. A me toccano due villaggi: uno si trova ad un’ora di cammino da Shelabunia, l’altro si trova al di là del grande fiume ed occorre un’ora di traversata in barca per raggiungerlo.

Così la vigilia di Natale, accompagnato da una suora bengalese e da qualche ragazzo, verso le 3 del pomeriggio, a piedi, raggiungo il villaggio, che si chiama CILLA. C’è una chiesetta in mattoni tutta bella addobbata con gusto bengalese. Nell’ampia spianata che c’è dinanzi alla chiesetta è stato allestito un rudimentale palcoscenico, dove, come mi dicono, ci sarà una sacra rappresentazione. C’è già gente in chiesa venuta per confessarsi e così io mi siedo al confessionale per ascoltare per la prima volta le confessioni in lingua bengalese. Non è che capisca un gran che, ma non sono io a perdonare, è il Signore che si serve di me per distribuire la sua grazia anche ai poveri bengalesi.

Verso le 6 il catechista (molto bravo, sarà lui a fare la predica al mio posto) mi chiama per la cena. Non è il “cenone” della vigilia di Natale, ma il solito riso con quelle spezie piccanti che fanno bere e ribere. Ad accompagnare la mia cena c’è il miglior vino che io abbia mai provato: l’acqua del pukur. Il pukur è una specie di laghetto che raccoglie l’acqua piovana; in Bangladesh, si trova dovunque c’è un raggruppamento di capanne. Ci si fa il bagno: per il bengalese il bagno giornaliero è come una cerimonia rituale; ci si fa il bucato, ci si abbevera il bestiame e serve naturalmente anche per cucinare e per bere. Non acqua corrente, ma stagnante. E’ da questa mancanza di igiene che hanno origine molte delle malattie che si trovano in questa terra. Ma io, finora, posso ritenermi fortunato, perché mi è andata sempre bene, grazie a Dio.

Quando si va nei villaggi, non si può fare a meno dal mangiare e dal bere quello che la gente con tanto amore ha preparato: sarebbe grave offesa rifiutare o mostrare di non gradire. Quando siamo nelle nostre sedi, si beve sempre acqua filtrata o bollita. Finita la cena, mi porto anch’io verso l’ampia spianata, dove ci sarà lo spettacolo. La gente è accoccolata, l’uno accanto all’altro; gli uomini da una parte, le donne dall’altra.C’è una temperatura tiepida dai 15° ai 10° gradi, ma loro sentono molto freddo. Ci sono Cristiani, Hindu e Musulmani fraternamente raccolti insieme per commemorare la nascita del Salvatore. Ci saranno state in tutto un duemila persone. La poltrona comune era rappresentata dal terreno, da cui era stato appena raccolto il riso. Lo spettacolo dura più di tre ore, poi gli Hindu e i Musulmani ritornano ale loro capanne e i Cristiani si portano in chiesa.

Verso le 10.30 ha inizio la S. Messa. I Cristiani manifestano la loro gioia con i canti, che, accompagnati dal rullo dei tamburi, si diffondono nella immensità di questo cielo tropicale, rischiarato dal chiarore lunare. La mia commozione è grande: guardo quei volti , solcati dai segni della fame, ma così semplici e sereni. E’ la prima volta che dico la messa in bengalese. Penso a tutti voi ed il cuore mi si riempie di gioia. Ai due lati dell’altare ci sono due lampade a petrolio, ma la luce che c’è nei cuori è mille volte più grande dello sfarzo delle luci al neon delle nostre chiese.

Terminata la messa, la gente non è ancora sazia di manifestare la propria gioia; e così un gruppo di uomini, giovani e ragazzi decidono di andare di villaggio in villaggio cantando la gioia del Natale. Invitano anche me ad andare con loro ed io dico che ci andrò l’anno prossimo. Vado così a letto, felice. Beh, non c’è la retemetallica, non c’è il materasso e non ci sono neppure le lenzuola; c’è solo un tavolato, ma io ci dormo il sonno più bello dellamia vita.

Il giorno dopo, la messa è fissata alle otto, ma si sa il valore che ha qui il tempo in Bangladesh e perciò, come se nulla fose, si incomincia alle nove. Tra l’altro alle 8 fa ancora freschino in questa stagione e perciò la gente stenta ad uscire dal calduccio delle loro capanne. Bisogna proprio che abbrevi, altrimenti non si finisce più. Insomma alle 11 circa lascio Cilla e mi affido alla barca per la traversata: circa un’ora. Si scende con la bassa marea e perciò si raggiunge la riva piantando i piedi nel fango. A CIUNGURI (è il nome del villaggio) la gente aspetta da due ore nella piccola chiesetta di bambù, che fa anche da scuola. Qui si vede chiaramente che la gente è ancora più povera, ma cantano con tutta l’energia che c’è nei loro corpi smunti. Anzi alla fine della messa, per rendere ancor più manifesta la loro gioia, si mettono anche a danzare.

Questo è il mio primo Natale in Bangladesh. Altri particolari sono rimasti nella penna, ma come si fa a dire tutto, i fogli si riempiono così subito! Spero che anche voi abbiate passato un Natale sereno e pieno di gioia. Vi porto nempre con me nel mio affetto e nella mia preghiera. BUON ANNO! Antonio

 

BORODOL, 08.06.1978 - Approdo a Borodol

Carissimi,

Questa è la prima lettera che vi scrivo dal mio nuovo campo di lavoro. Ho appena ricevuto la vostra lettera e sono molto contento delle notizie che mi date. Proprio ad alcuni metri dalla chiesa scorre un fiume maestoso, il KOPOTOKKO. La facciata della chiesa dà proprio sul fiume, che con l’alta marea arriva quasi dentro casa. Quando apro la porta centrale della chiesa, si presenta lo spettacolo delle barche, che incessantemente solcano il fiume. E’ proprio attraverso questo fiume che io sono arrivato dalla più vicina missione di Satkhira. P. Gabriele Spiga mi ha accompagnato in jeep fino al fiume (circa un’ora di strada), poi ho caricato la mia mercanzia su un barcone. Con me ci sono due bengalesi. Normalmente dal posto d’imbarco, BUDHATA, ci si impiega (così mi dicono) 3 ore per raggiungere Borodol. Ma questa volta ci vorranno ben 7 ore! Andiamo contro corrente (per via dell’acqua che risale dall’oceano) e un fortissimo vento è contro di noi. A tratti, con molta fatica, si riesce ad avanzare di un metro. Mi dò da fare anch’io e, in certi momenti, il mio apporto diventa indispensabile. Di ritorno dal Bangladesh sarò un bravo vogatore!

Come vi dicevo, a Borodol da circa 8 anni mancano i Padri, per cui la missione è ridotta in uno stato di abbandono. Finora sette o otto serpentelli sono saltati fuori, tutti assai velenosi naturalmente. Così ieri pulizia radicale e siamo riusciti a scoprire il nido di serpe che era proprio in casa. Adesso si può dormire tranquillamente. Vi dicevo che qui a Borodol, come del resto nella maggioranza dei villaggi bengalesi, manca l’elettricità e perciò si va con la lampada a petrolio. Con l’acqua è risolto il problema, perché sono riuscito a procurarmi un filtro; la salsedine comunque si sente ugualmente. Con me adesso abita un giovane Hindu. E’ scappato di casa perchè vuole farsi cristiano e i suoi naturalmente non vogliono. Sono già più di due anni che sta in questo cammino di approfondimento del mistero della fede. Per me è di aiuto incalcolabile soprattutto per capire la mentalità della gente. Con me approfondirà ulteriormente la sua conoscenza di Gesù in vista del battesimo. Intanto facciamo vita comune.

Appena arrivato a Borodol, ho trovato un bravo cristiano che si chiama Shubol Makhal. L’ho mandato nella nostra casa regionale a Khulna, perché impari a cucinare. A giorni dovrebbe essere di ritorno e così metteremo cucina per conto nostro. Nel frattempo mangiamo presso una famiglia cristiana: riso mezzogiorno e sera e…, naturalmente, si adoperano le mani, perché le posate qui sono praticamente sconosciute.

Borodol è un centro di circa 10 mila abitanti. Quando il Bangladesh faceva parte dell’India, Borodol era chiamata “piccola Calcutta”, perché era un centro commerciale di notevole importanza. Adesso invece tutto è finito. Quello che rimane è un grande mercato settimanale (BAZAR), che si svolge in Domenica e in quel giorno è quasi impossibile ttraversare il villaggio per la grande calca di gente. I Cristiani (circa 150 famiglie) vivono in un’aria separata, che si chiama para. Così a Borodol c’è la para Cristiana, quella Musulmana e quella Hindu, che è la più numerosa. I nostri vivono in un fazzoletto di terra, in una condizione di miseria veramente pietosa. Nella medesima capanna persone e bestie insieme. La prima operazione perciò a Borodol è stata un’operazione di pulizia. Sono andato di capanna in capanna e ho detto: “Vi dò tre giorni di tempo; se entro tale tempo non rendete la vostra para pulita come uno specchio, io me ne andrò e più nessun Padre verrà qui tra voi”. La lezione è stata recepita e tutti, a cominciare dai bambini, si son messi sotto a pulire. La mancanza di igiene è la fonte di tutte le malattie.

Adesso putroppo è vicina la stagione delle piogge, che comincerà verso la metà di questo mese e tutto il villaggio sarà sommerso nel fango e nell’acqua e quindi l’operazione si rivelerà inutile. Ma pian piano cercheremo di rendere questa vita un po’ più umana. Adesso sono costretto a finire. Vi dico che sono tanto felice e che la mia gioia è grande. Vi sono sempre vicino. Saluti a tutti e pregate per me. Vostro Antonio.

 

BORODOL, 17.09.1978 - La storia continua ...

Carissimi,

Mi ha fatto molto piacere ricevere vostre notizie in un momento in cui sembrava che tutti si fossero dimenticati di me. I tanti amici dove sono andati a finire? Meno male che c’è un Amico, il quale non viene mai meno e sul quale ho riposto tutta la mia fiducia, essendo Lui l’unico garante e testimone della mia vita. Sono ancora mezzo stordito dai festeggiamenti che ho ricevuto ieri in occasione del mio 39° compleanno: banda, collane di fiori, teatro e tutto si è svolto al chiarore di questa luna tropicale (ieri c’è stata luna piena, in bengalese: PURNIMA), che qui svolge ancora la sua funzione primordiale. E’ la prima volta che mi capita di celebrare il mio compleanno con tanta solennità. Mi hanno regalato una pecorella ed un bastone, il cui significato non ha bisogno di spiegazioni. Questa mattina abbiamo venduto al bazar la pecorella e abbiamo realizzato qualcosa come 5 mila lire, che vanno ad aumentare il deposito dei ragazzi della scuola. Ogni settimana depositano presso di me ciascuno l’equivalente di 20 lire ed un pugnetto di riso. Queste cose forse vi faranno ridere, ma qui è di capitale importanza abituare al risparmio e a pensare al domani.

Ho cominciato a guardarmi attorno e a organizzare il lavoro anche negli altri villaggi: ce ne sono almeno dieci che dipendono da Borodol nel raggio di 20/30 km. Anche qui la situazione è tornata in uno stato di completo abbandono. Per ogni villaggio dovrò incaricare qualcuno per la scuola e l’istruzione religiosa. Giovedì scorso mi sono recato in uno di questi villaggi, GOROIKHALI, il più lontano dalla missione. Naturalmente l’unico mezzo è la barca (nouka). Prima di partire bisogna calcolare bene l’andamento della marea. Ma, per quanto si faccia, non si indovina mai, perché qui è tutto un intrecciarsi di fiumi, per cui capita che si parte con la corrente favorevole e dopo un po’ ls si ritrova contro, perché bisogna seguire il corso di un altro fiume. Dunque più di 6 ore di barca. Partito da Borodol alle sette e trenta sono arrivato a Goroikhali verso l’una. Appena arrivato, mi sono recato a quella che era la vecchia chiesetta, ma l’ho trovata in uno stato di abbandono tale da far piangere il cuore: ridotta ad una stalla, galline (con il resto) su quello che una volta era l’altare. Uscito di chiesa, ho fatto un giro per il villaggio con tutta la gente che mi veniva dietro. Finito il giro, sono ritornato nella chiesetta e qui fulmini e saette: “Ho visto le vostre capanne, tutte ben pulite e in ordine; vedete la casa di Dio in quale stato si trova? Io non posso restare neppure un minuto in mezzo a quei cristiani per iquali Dio non ha nessun valore”. Detto questo, mi sono avviato verso il fiume per riprendere la barca con la quale ero arrivato. Tutta la gente, a cominciare dai capi-villaggio a supplicarmi perché restassi, perché sentissi i loro problemi. Ma non c’è stato verso, sono rimasto irremovibile. Devono capire che faccio sul serio ed ho pensato che una simile lezione possa essere stimolante per loro. Prima di congedarmi, ho detto loro: “Non mi vedrete più nel vostro villaggio fintanto che non mi venite a dire: Padre, abbiamo riparato la nostra chiesetta!”

Così sono risalito in barca. Sulla via del ritorno, mi sono fermato in un altro villaggio, ALOMTOLA”, non prima però di 5 ore di barca e dopo e dopo aver affrontato anche una tempesta: in un giorno 11 ore di barca! Lascio immaginare a voi (se potete) in quale stato si trovassero le mie ossa. Ho fatto sosta in quest’altro villaggio, dove mi sono anche rifocillato un po’. Qui c’ero già stato un’altra volta e la situazione è migliore e la gente ben disposta. Tra l’altro si pagano per metà il loro catechista e maestro. Mi son intrattenuto una giornata intera, il tempo sufficiente per sentire i loro problemi. Hanno bisogno urgente di una pompa per l’acqua potabile. Lavorano (la maggior parte) il bambù: fanno stuoie, cestini, ecc., ma non hanno il capitale sufficiente per comprare una quantità di materiale che permetta loro di lavorare un po’ serenamente. Per la pompa dell’acqua, ho detto che se loro danno un quarto del costo, io sono disposto a dare il resto. Bisogna porsi su questa linea educativa, perché se non si suscita la loro cooperazione, il denaro che si dà, invece di aiutarli, li rende dipendenti e quindi non in grado di stare in piedi sulle proprie gambe. Per quel che riguarda la lavorazione del bambù, abbiamo dato vita ad una specie di cooperativa: devono lavorare insieme, questa è la mia idea fissa! Ho detto loro che nei prossimi tre mesi io mi impegno a comprare il materiale, ma loro devono lavorare insieme e insieme affrontare il mercato. Dopo questa spinta iniziale, loro dovranno darmi indietro il danaro, perché con quel danaro io possa aiutare altra gente, che si trova nelle loro stesse condizione.

Dovrei ora passare a parlare di Borodol, dove tante iniziative sono state messe insieme e altre sono in cantiere. Intanto posso annunziarvi che abbiamo organizzato la prima grande vendita di scarpe in grande stile: 100 paia tra scarpe e sandali! Si è approfittato di un grande mercato di 3 giorni ( in bengalese si chiama mela), che si tiene a Satkhira, per lanciare il prodotto della nostra calzoleria. Adesso, però, tutti siamo in attesa dei risultati: le nostre scarpe troveranno dei compratori? Da questo dipenderà un po’ tutto, ma certo non ci scoraggeremo facilmente.

Non preoccupatevi di me per quel che riguarda l’alluvione, che si è verificata un po’ più al nord rispetto alla zona dove si trova la missione di Borodol. Credo che ne abbiate abbastanza per questa volta  e penso sia il momento di lasciarci. Sempre vicino a voi con la preghiera e un grande affetto. Antonio

 

BORODOL, 09.12.1978 - Il madur

Ho ricevuto qualche giorno fa la vostra lettera e ho appreso con piacere che state tutti bene. Adesso io non solo più solo. Qualche giorno fa infatti è tornato dall’Italia P. Serafino Dalla Vecchia, che ha subito un’operazione allo stomaco (si tratta effettivamente di cancro) e Dio solo sa fino a quando sopravviverà. Ha soltanto 52 anni e potrebbe fare ancora tanto bene tra questi nostri Muci. Il padre ha voluto tornare qui per morire tra la sua gente (come continua a ripetere), per la quale ha speso metà della sua vita. Egli può considerarsi il fondatore della missione di Borodol, anche se i Gesuiti da Calcutta erano già arrivati qui nel 1937. Tornando a Borodol ha ricevuto un’accoglienza trionfale. Siamo andati a prelevarlo a Satkhira con tanto di banda, costituita naturalmente dai nostri Muci. Proprio durante la traversata del fiume (eravamo tutti su un piccolo battello) è successo un episodio significativo che può farvi capire il disprezzo che hanno gli altri per i nostri Muci. I nostri bandisti avevano eseguito un pezzo sul pontile del battello, dove i Musulmani salgono per fare la loro preghiera (il namaj). Poco dopo è arrivato un tizio che ha fatto scendere i nostri. Poi un mozzo ha lavato con acqua il posto dove essi erano seduti. Sul momento io non avevo capito, poi P. Serafino all’orecchio mi dice: “Vedi? Lavano perché il posto è divenuto impuro per la presenza dei Muci”. Mi sono sentito ribollire il sangue e se lo avessi saputo prima certamente non sarei rimasto a boccha chiusa.

Ho incontrato a Khulna fratel Giuseppe Masolo, che mi portato dall’Italia l’orologio da voi comprato. E’ stato un regalo veramente assai gradito. Ho potuto così restituire l’orologio che un padre mi aveva dato nel frattempo. Qualche settimana fa mi è capitato un piccolo incidente all’occhio sinistro. Stavo riparando la pompa dell’acqua, quando una piccola scheggia mi è schizzata nell’occhio. Ho atteso un paio di giorni nella speranza che venisse fuori. Poi mi son deciso ad andare a Jessore, dove c’è il nostro ospedale. C’è voluto un piccolo intervento chirurgico. Il dottor Bucari è riuscito a tiramela fuori. Ho tenuto l’occhio bendato per una diecina di giorni. Adesso sembra tornato normale.

Qui il nostro lavoro, con l’aiuto di Dio, procede abbastanza bene. Specialmente il lavoro delle stuoie sta avendo un largo successo. Come vi scrivevo in altra occasione, Borodol è il mercato nazionale delle stuoie chiamate in bengalese madur. Ogni domenica vengono i bepari (commercianti) a farne provvista. Le caricano su grossi barconi e le portano nelle più svariate direzioni. Il madur (stuoia) è intessuto con un tipo di giungo, chiamato in bengalese mele, che si trova in grande abbondanza nella giungla. Praticano questo mestiere gli Hindu. Quando la prima volta vidi quell’immenso cumulo di stuoie nel bazar di Borodol, mi chiesi: “Perché la nostra gente non può fare questo tipo di lavoro?” Invitai un Hindu del mestiere, un mistri del madur, alla missione perché insegnasse il lavoro alla nostra gente. Occorre un telaio molto rudimentale, che viene fissato nel terreno su 4 pioli, legati da due sbarre di legno, l’una a capo, l’altra a piedi, da cui partono i fili su cui scorre la spola (behu) che congiunge i giunghi (mele) a formare la stuoia (madur). Queste stuoie hanno ovviamente delle dimensioni standard, che si misurano a braccio (in bengalese: hat) e ce ne sono quindi di piccole e di grandi. Nella prima settimana sette famiglie (marito e moglie) son venute alla missione ad imparare il mestiere. Nel giro di poco più di un mese una cinquantina di famiglie hanno imparato a intessere stuoie. A loro è stato dato un telaio, che hanno installato nelle loro capanne o nel cortile antistante. Inizialmente è stato dato anche uno stock di mele comprato al bazar. Così è partita questa piccola industria delle stuoie.

Anche per il centro del cucito si è aperto uno spiraglio: abbiamo ordinazioni da Dhaka, la capitale. Non appena mi sarà possibile vi manderò qualche esemplare dei lavoretti che stanno facendo le nostre donne. Bisogna cominciare a pensare a qualche altra iniziativa per i ragazzi, che, finita la scuola, non hanno nessuna prospettiva di lavoro. Ho in mente una falegnameria ed un’officina meccanica. A Satkhira questo è già stato realizzato. Se i padri di là mi danno una mano, forse riusciremo anche qui. Vi comunico intanto che forse per Natale avremo anche la corrente. Padre Serafino infatti ha portato un piccolo generatore e fra qualche giorno inizieremo i lavori per l’installazione: ogni giorno potremo avviarlo solo per un paio di ore. Va a benzina, che qui non si trova e bisogna portarla da Khulna. Finisco qui perché lo spazio,che è sempre più limitato e le cose da dire tante! Il Natale è alle porte e ve lo auguro colmo di gioia. Vostro Antonio.

 

BORODOL, 28.01.1979 - Una letterina

Carissimi,

Ho ricevuto prima i vostri auguri di Natale e poi i due pacchetti arrivati in buono stato, salvo il salame rosicchiato da qualche topo (non musulmano!). E ora rispondo io ringraziandovi di tutto cuore per l’affetto che cercate di dimostrarmi in tanti modi. Non ricordo esattamente cosa vi raccontavo l’ultima volta o a qual punto ero arrivato. Non so se vi avevo parlato di P. Serafino, che era venuto a stare con me a Borodol.  Poco più di un anno fa egli era tornato in Italia per essere operato di cancro: quasi otto ore di operazione! All’inizio di dicembre ha voluto tornare in Bangladesh e precisamente a Borodol, dove egli aveva iniziato dal nulla, o quasi, la missione. Egli era consapevole che non gli restava molto da vivere e, nonostante ciò, ha voluto tornare “per morire tra la sua gente”, come lui dice. Forse vi ho parlato del trionfo e della gioia con cui i nostri Cristiani lo hanno accolto. Il Padre si è fermato qui alcune settimane e, precisamente, fino alla notte di Natale. Proprio dopo la messa di mezzanotte, è crollato di nuovo e lo abbiamo dovuto trasportare di urgenza al nostro ospedale di Jessore: il suo male ha ripreso di nuovo ed ora, salvo un intevento di Dio, aspettiamo l’epilogo. La nostra gente continua a pregare per lui, che considera come uno di loro e che vuole che sia sepolto in mezzo a loro, come un seme, da cui spunterà la pianta robusta della Chiesa di Borodol.

Aspetterò un’altra occasione per dirvi di più: per ora accontentatevi ed unitevi alla nostra preghiera. In questo periodo si sono accumulate tante lettere che attendono una risposta. Non dimenticatemi al Signore. Vostro Antonio.

 

p. Antonio Germano, il secondo da sinistra

p. Antonio Germano, il secondo da sinistra

 

BORODOL, 29.04.1979 - Un documento

Carissimi,

Era da un po’ di tempo ormai che non mi facevo vivo. Ho ricevuto la vostra ultima lettera e sono molto contento delle notizie che mi date. Quello appena trascorso è stato un periodo particolarmente intenso di attività, anche perché c’è stata di mezzo la Pasqua con la visita ai vari villaggi. Giovedì scorso, 24 aprile, mi è giunta la nottizia della morte di P. Serafino. Di lui vi ho parlato diffusamente. Si tratta comunque di un padre ancora giovane (52 anni: alla stessa età è morta mia madre), che aveva speso metà della sua vita (25 anni) in Bangladesh e precisamente tra quella che è diventata adesso la mia gente. Lui, come già dicevo, può considerarsi il fondatore della missione di Borodol, perché vi rimase in maniera stabile, mentre gli altri, che lo avevano preceduto, venivano da Satkhira, stavano qualche giorno e poi ripartivano. La gente gli aveva voluto bene e gli vuole anche adesso tanto bene: “era diventato come uno di noi, mangiava quello che noi mangiamo”. Era riuscito ad adattarsi in maniera veramente singolare allo stile di vita della sua gente, che certamente non lo dimenticherà.

Forse per la fine di quest’anno un altro padre verrà a stare con me. Da alcuni mesi sto combattendo perché si dia più attenzione alla zona dove io sto lavorando, la zona dei fuori-casta, degli intoccabili. A forza di insistere, qualcosa si sta muovendo. Si tratta di un giovane padre cremonese Pierluigi Lupi, che ha appena finito il corso di bengalese a Borishal. Forse questo è il primo frutto della morte di padre Serafino, che per i Muci ha dato la vita. Per me sarà senz’altro una grazia, perché è quasi un anno che vivo da solo. Manca poco meno di un mese all’inizio della stagione delle piogge. Questo è il periodo forte del caldo e il sole arrostisce anche il cervello: bisogna prendersela con calma e rallentare il ritmo di lavoro. Due progetti finanziati dalla Caritas del Bangladesh,che mi hanno tenuto impegnato per quasi 4 mesi, stanno per concludersi.

Spendo due parole per illustrarvi un po’ questi due progetti, che, spero, apriranno un capitolo nuovo della storia di Borodol. Il primo progetto riguarda la costruzione di 75 casette per le famiglie più diseredate. Prima di iniziare i lavori, ci siamo seduti a più riprese con gli interessati per fissare le modalità della costruzione e stabilire la misura della loro collaborazione. La missione avrebbe fornito i bambù per l’inteleiatura del tetto, le tegole, porte e finestre e avrebbe pagato il carpentiere (in bengalese: mistri) con due aiutanti, che avrebbero assemblato il bel tutto. La gente dal canto suo doveva provvedere, a proprie spese, al basamento della casetta in terra battuta e alle mura parietali pure esse in terra battuta. Solo quando il bel tutto era pronto, essi avrebbero ricevuto il materiale pattuito. Sono così cominciati i lavori e i barconi, carichi di tegole e bambù incominciavano ad attraccare sulla sponda del fiume. E qui “incomincian le dolenti note”! Chi scarica le tegole? Chi scarica i bambù? Faccio un primo, un secondo, un terzo giro nel villaggio gridando: “Sono arrivate le tegole, sono arrivati i bambù e bisogna scaricarli!” Ma nessuno si muove. Che fare? Incomincio io. Salgo sul barcone, mi carico sulla testa 4/5 tegole e inizio l’operazione di sbarco. Vedo, con sorpresa, che i bambini mi seguono, vengono anche uomini e donne; arrivano anche i capi-villaggio (in bengalese: matubbor). Alla loro vista, io mi fermo a guardare questa stupenda processione: “E’ una comune evangelica?” Il lavoro delle case è ora completato. L’aspetto di Borodol appare trasformato per il rosso delle tegole, che hanno sostituito il tetto di paglia.

Il secondo progetto, sempre finanziato dalla Caritas del Bangladesh, prevede la costruzione di un argine sulla riva del Kopotokko per proteggere il terreno demaniale, che, per una disposizione governativa, è stato concesso in proprietà ai nostri Muci, che sono bhumihin (=senza terra). Ancora prima che io arrivassi a Borodol, P. Luigi Paggi, allora responsabile della missione di Satkhira, da cui dipendeva anche Borodol, aveva inoltrato domanda al governo a nome di 7 bhumihin. Il governo aveva accolto la richiesta e aveva concesso il diritto di proprietà di tutta la fascia demaniale che costeggia la para Muci. Nella concessione c’è però una clausola molto intelligente: i proprietari non potranno alienare il terreno nei primi 15 anni. Si tratta di un pezzo di terreno favoloso: 7 acri! Io di misure non me ne intendo molto, ma dovrebbero essere l’equivalente di quasi 3 ettari, che, secondo le misure bengalesi, corrispondono a 21 bigha. I 7 proprietari, alla mia presenza e al cospetto della comunità cristiana, hanno firmato un documento in cui si dice che loro sono i proprietari nominali, ma il terreno deve servire al bene di tutta la comunità. Questo era l’intento iniziale, di cui tutti erano a conoscenza, ed anche la ragione per cui sono state affrontate tutte le spese burocratiche.

Rimane ora un lavoro un pochettino più difficile: occorre dar vita ad una cooperativa per la valorizzazione del terreno ricavato dalla costruzione dell’argine. Il problema è che nessuno dei miei Muci ha mai posseduto un pezzo di terra: sarà possibile coltivare il riso? Sembra un’impresa difficile ma non impossibile. Se ci riusciamo, incomincerà una pagina nuova della storia di Borodol.

Intanto, come altre volte vi dicevo, il lavoro delle stuoie va a gonfie vele. Arrivato qui, non c’era giorno che le donne non litigassero. “Qui ci vuole una medicina” mi dissi. E la medicina fu quella giusta: il lavoro! Quasi tutte le donne intessono stuoie e così non trovano tempo per litigare. In più guadagnano qualcosa e questo conferisce loro un po’ di dignità. Anche la scuola procede abbastanza bene. Solo a Borodol ci sono 150 alunni dalla prima alla quinta elementare. Ci sono poi le scuolette degli altri villaggi, che ho riorganizzato durante quest’anno.

Adesso però dovrò limitarmi nei progetti, perché di aiuti da gran tempo non ne vedo e già le spese ordinarie sono un peso non indifferente. Niente paura comunque, perché ormai so che il Signore arriva sempre al momento giusto. Spero di non avervi annoiato troppo con questa lunga chiacchierata. Se lo fosse, perdonatemi. Possa il Signore rimanere sempre in mezzo a voi e comunicarvi  gioia e  pace. Vostro Antonio.

Laddove c'era il fiume ora c'è il riso

Laddove c’era il fiume ora c’è il riso

 

BORODOL, 08.07.1979 - La crisi

Carissimi,

Scrivo queste righe dopo la mia lunga parentesi ospedaliera. Solo due mesi dopo infatti son potuto rientrare a Borodol per riprendere la mia attività. Ho così pagato anch’io il mio tributo a questa terra, io che mi gloriavo dinanzi agli altri per il fatto che in due anni mi era andato tutto liscio. “Vedrai che che prima o poi arriverà anche il tuo turno!” mi diceva sorridendo un confratello. E difatti il mio turno è arrivato…, ma spero sia anche passato.

“Ma cosa ti è accaduto?” mi chiederete. Tutto è avvenuto ai primi di maggio. Il vescovo Mons. Michael D’Rozario, per la prima volta durante la mia presenza a Borodol, veniva in visita pastorale alla missione ed io l’ho accompagnato in tutti i villaggi. Faceva un caldo tremendo ed io non avevo preso nessuna precauzione nel coprirmi la testa. E così picchia oggi, picchia domani, alla fine la mia testa è scoppiata. Terminata la visita pastorale, col battelo di servizio giornaliero Borodol-Khulna, il vescovo è rientrato in sede. Il giorno dopo verso le due del pomeriggio mi son sentito addosso un febbrone da cavallo. Allora, d’istinto, mi son detto: “Qui, se non parto, ci rimetto le penne!” Ho deciso quindi di andare subito nella vicina missione di Satkhira. Con quale mezzo? Con l’elicottero! Sapete cos’è l’elicottero di Borodol? E’ una bicicletta con il sedile posteriore riservato al passeggero. Lo chiamano elicottero perché è il più veloce mezzo di trasporto nella zona. Corre sull’argine del fiume e si carica facilmente sulla barca per l’attraversamento dei fiumi. Son salito dunque sul mio elicottero sotto un sole che spaccava le pietre, si direbbe in Italia, perché qui da noi non ci sono pietre.

Dopo due ore e mezzo sono arrivato alla missione di Satkhira. Sceso dall’elicottero sono crollato. Spaventati, i padri mi hanno subito accompagnato da un bravo medico pakistano amico della missione, il quale, vedendomi, ha detto che avevo preso un colpo di sole. “Sunstroke!” ha sentenziato. I padri mi hanno poi accompagnato nella casa delle suore, che gestiscono il dispensario della missione. Le due suore infermiere, Sr. Filomena e Sr. Laura, hanno fatto il turno nell’assistermi durante la notte. Secondo il suggerimento del medico, hanno posto una borsa d’acqua ghiacciata sulla mia testa matta. Tutta la notte, mi diranno dopo, sono rimasto in uno stato inconscio. Il giorno dopo P. Gabriele Spiga con Sr. Filomena mi ha accompagnato all’opedale di Jessore con la FIAT 1400 della missione, affidandomi alle cure del dottor Remo Bucari.

Dopo 3 o 4 giorni di semi inconscienza, sono rinvenuto trovandomi addosso un altro malanno. Ogni giorno, ad una determinata ora, dopo un brivido di freddo, mi scoppiava un gran febbrone. Era comparsa la malaria e così sono rimasto bloccato all’ospedale per 40 giorni. Il medico, le suore e le infermiere hanno avuto grande cura di me. Ristabilito in salute, era giunto il momento di tornare a Borodol. Qui incomincia il dramma della mia vita: tornare o non tornare a Borodol? Stando in ospedale avevo ricevuto tanta attenzione: luce elettrica, aria condizionata, cibo squisito, acqua fresca,ecc. Sull’onda dell’entusiamo mi ero avventurato nell’impresa della missione a Borodol; tutto era nuovo per me e avrei affrontato tutto con spirito pionieristico. Ma adesso? Il quadro mi appariva chiaro: sapevo quello che lasciavo e mi veniva paurosamente incontro quello che avrei di nuovo trovato. Vi confesso: non avevo nessuna voglia di tornare a Borodol. Era un lunedì e mi trovavo in questa situazione. Vado nella cappella dell’ospedale a pregare. Al lunedì della quarta settimana del salterio l’Ufficio delle Letture ci fa pregare con il salmo 72. Man mano che mi inoltro nella lettura e nella preghiera ho la sensazione netta che quel salmo è stato scritto per me: quei versetti e quelle parole mi rimbalzano dentro e mi infondono una serenità ed una gioia straordinaria, comunicandomi anche forza e coraggio: “Riflettevo per comprendere, ma fu arduo agli occhi miei, finché non entrai nel Santuario di Dio… Io ero stolto e non capivo… ma io sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano destra… Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre”.(Sl. 72,vv. 16,22,23,26)

La decisione, come all’inizio della mia chiamata alla missione, si rinnova e mi riporta, con un entusiasmo diverso, perché fondato su una Forza diversa, in mezzo a quelli che mi aspettano. Sono dunque a Borodol. C’è ancora un po’ di fiacca, ma pian piano spero di ricuperare le mie forze. Ora siamo nel pieno della stagione delle piogge, che quest’anno sono arrivate in ritardo, causando danni incalcolabili: un raccolto di riso in meno, juta e canna da zucchero che sono andate alla malora. Il prezzo del riso attualmente si aggira intorno alle 7 taka. Se pensate che chi è fortunato guadagna 10 taka al giorno (=600 lire), potete farvi un’idea della cosa. In Occidente è il prezzo del petrolio che condiziona tutto, qui invece è il prezzo del riso. Lascio immaginare a voi quello che ho trovato qui dopo due mesi di assenza: la casa e il giardino tornati di nuovo alla giungla, dove i serpenti son tornati a farsi il nido. Tutte le iniziative intraprese ai vari livelli rimaste bloccate. Si tratta perciò ancora una volta di ricominciare da capo. In questo periodo dell’anno c’è sempre penuria in Bangladesh; quest’anno poi, per le ragioni a cui accennavo, si sente ancora di più. Da tutti i villaggi vengono qui al centro credendo di trovare la manna; purtroppo, però, alle volte bisogna fare anche la parte del duro per scopo educativo. Noi già da molto tempo abbiamo accantonato l’idea di fare l’elemosina, perché l’aiuto dato senza partecipazione dell’individuo crea una mentalità di accattoni, che è diametralmente opposta a quella dello sviluppo. Con i pochi soldi di cui si dispone, si cerca di creare iniziative di lavoro, che possano coinvolgere l’individuo e renderlo partecipe e responsabile del proprio sviluppo. Questa politica non è semplice, perché è molto più facile dare un aiuto spicciolo e lavarsi le mani, lasciando che le cose continuino come prima. Anche questa volta ho approfittato della vostra pazienza con questa mia lunga lettera e spero di avere ancora il vostro perdono, Vi lascio portandovi nel cuore e affidandovi al Signore. Vostro Antonio.

 

BORODOL, 05.11.1979 - La calzoleria

Carissimi,

Questa volta è passato molto tempo prima che prendessi in mano la penna per mandarvi due righe in risposta alla vostra ultima lettera. La ragione? Il lavoro è tanto ed io sono ancora solo. La speranza di avere con me un altro confratello è svanita. Infatti P. Pierluigi Lupi è stato assegnato alla missione di Baniarchok in aiuto a P. Giacomo Rigali. I Cristiani di quella zona provengono anch’essi dall’Induismo e appartengono al gruppo dei Nomosudro. Si trovano anch’essi all’ultimo gradino della scala, ma si credono superiori ai nostri Muci. P. Henry Koster, il Gesuita che per 12 anni ha guidato la missione di Satkhira e Borodol e che nel 1952 ha lasciato la missione in eredità a noi Missionari Saveriani, esprimeva un giudizio non molto lusinghiero nei loro confronti. Ad un certo punto dei suoi diarii, parlando di un Nomosudro cristiano, venuto a far parte della missione di Satkhira, diceva che gli dava più grattacapi lui che cento Muci messi insieme. Quindi viva i nostri Muci!

Con il mese di novembre incomincia qui il periodo più bello dell’anno, che andrà avanti per 4 mesi. Di giorno il caldo è gradevole e di notte fa fresco e si dorme magnificamente. Questo è anche il tempo in cui si ricuperano un po’ le forze per far fronte al lungo periodo del caldo e delle piogge. In questi mesi si possono coltivare tutti i generi di legumi e di ortaggi. Nel mio orto sono già cresciute le piantine di pomodoro, patate, insalata… Voi invece andate incontro all’inverno e per questo certamente non vi invidio.

Il lavoro, come al  solito, è tanto e le difficoltà non mancano. Non vi ho ancora parlato della vicenda della Calzoleria (in bengalese: jutar karkhana), iniziata con tanto entusiasmo. E’ stato un solenne fallimento! Frutto della mia inesperienza e uno di quei tranelli, che i miei Muci sanno perfettamente organizzare. Vi ricordate del proverbio: Muci budhi, kuci kuci? Qui ne vedete  l’applicazione. Quando, l’anno scorso, all’inizio della stagione delle piogge, mi son seduto con i miei 4 provetti calzolai per organizzare e programmare il lavoro della karkhana, essi apparivano entusiasti e ansiosi di iniziare al più presto. La ragione? L’ho capita dopo. Durante la stagione delle piogge essi non possono andare di villaggio in villaggio a lavorare. Ogni villaggio ha il suo giorno di mercato, chiamato hat. Questi hat sono sempre affollatissimi e offrono grande occasione di lavoro e quindi di guadagno ai nostri calzolai, che lavorano seduti ai margini delle strade. Ora, durante la stagione delle piogge, questo non è possibile. Rimangono a casa, tirano un po’ la cinghia in attesa del bel tempo. Ecco allora da dove scaturivano il loro entusiasmo e la voglia di iniziare: avrebbero preso la paga giornaliera senza dover uscire da Borodol. Inoltre mi avevano chiesto anche di comprare una barca (nouka): al termine della stagione delle piogge, essi sarebbero andati di villaggio in villaggio a vendere scarpe e sandali. Ed io, ingenuo, ho comprato anche la nouka! Al termine della stagione delle piogge, senza dirmi niente, ognuno è andato per la sua strada, lasciandomi il cumulo delle scarpe e dei sandali invenduti e la barca attraccata alla riva del Kopotokko. Ovviamente i miei bravi calzolai non si son fatti più vedere! Questa è la gloriosa storia del mio primo progetto iniziato con tanto entusiasmo. Lascio a voi il commento!

Non mi illudo, altre delusioni arriveranno, ma tutto serve ed è occasione per imparare ad essere più accorti nell’agire. Avanti sempre dunque affidandoci al Signore e scommettendo sempre su i nostri Muci. Corialmente vostro Antonio.

 

BORODOL, 13.02.1980 - Buona Pasqua

Carissimi,

Ieri ho spedito qui da Khulna un pacco con alcuni lavoretti del nostro centro del cucito. Si tratta di 10 tappetini quadrati e 5 rettangolari. Questi ultimi sono chiamati “preghiera” (namaj in bengalese) e sono adoperati dai Musulmani quando fanno la loro preghiera. Li stendono a terra in direzione della Mecca e vi fanno le loro prostrazioni. I tappetini quadrati a noi vengono a costare intorno alle 10 mila lire, spedizione compresa. Il costo del tappetino “Preghiera” invece è di 5 mila lire. Il ricamo, come potrete vedere, è fatto su stoffa di sacco e, naturalmente, è un lavoro di pazienza e richiede molto tempo. Se tra gli amici riuscite a venderne qualcuno, potrete darci una mano nel portare avanti il Centro del Cucito. Abbiamo già avuto la prima grande vendita negli Stati Uniti per 400 dollari e abbiamo avuto già un’altra richiesta. Ma, se vi è di grave incomodo, lasciate stare e non c’è da preoccuparsi.

Non vi ho ancora raccontato come ha avuto origine il Centro del Cucito, dove attualmente lavorano 2 sarti e 40 donne, All’inizio dell’anno scorso sono andato a fare visita a Nuton Burya, un villaggio che si trova ad un km. di distanza da Borodol ed è anche il villaggio del mio cuoco Subol Makahal, di cui vi ho già parlato. Andando di casa in casa, ho sostato proprio dinanzi alla casetta di Subol. La figlia, Bharoti, seduta in veranda, stava ricamando (punto a croce) su un pezzo di stoffa di sacco. Le ho fatto alcune domande e le ho chiesto se altre ragazze sapevano ricamare come lei. La risposta è stata positiva. Tornato a casa la mia testa si è messa all’opera. C’era un gruppo di ragazze che sapeva ricamare. Occorreva provvedere stoffa di sacco e filo di lana.

La coltivazione dela iuta è largamente diffusa in Bangladesh ed è una delle principali risorse del paese. Viene lavorata nei mulini di iuta, chiamati in inglese jute mill. Soprattutto la città di khulna pullula di jute mill. La stoffa di sacco ha un suo nome tecnico e si chiama Hessian cloth e in lingua bengalese Chot. La prima cosa da fare era quella di prendere contatto con i luoghi dove viene prodotto il chot. Ho fatto quindi il giro dei jute mill di Khulna. E’ stata un’esperienza unica. Quasi tutti risalgono all’epoca dell’Impero Britannico ed occupano un’aria immensa, con macchinari che mi hanno lasciato sbalordito ed un gran numero di operai. La stoffa viene prodotta in rotoli enormi dalla larghezza di 5 metri e lunghazza di 400 metri. Ho contrattato uno di questi rotoli. Trasportarlo fino a Borodol è stata un’impresa. Caricato su un carro trainato a mano è stato portato fino al ghat (luogo d’imbarco) e caricato sul battello. Son salito anch’io e siam partiti alla volta di Borodol. Se era stata un’impresa caricarlo, scaricarlo sul molo mi ha fatto rizzare i capelli sulla testa: temevo che il rotolo mi andasse a finire nelle acque del Kopotokko! Ma i Bengalesi sono meravigliosi e arrivano là dove a noi sembra impossibile arrivare. Così il rotolo arriva sano e salvo alla missione.

Il chot dunque c’è. Adesso bisogna procurare il filo di lana. Mi reco al mercato centrale (boro bazar) di Khulna. Girando riesco a pescare il luogo dove si vende il filo di lana: un gran numero di matasse di vario colore, ricavate sfilacciando vecchie maglie di lana. Riempio il mio sacco e via verso Borodol. La stoffa c’è e c’è anche il filo di lana. Cosa manca? Mancano dei modelli a cui ispirarsi. Questa volta bisogna arrivare fino a Dhaka, la capitale, dove ho saputo che c’è una organizzazione dal nome AARONG, specializzata in handicrafts (lavori a mano). Mi reco nel negozio AARONG a Dhaka e scelgo alcuni esemplari: borse, “preghiera”, tappetini vari e li porto con me a Borodol. Adesso c’è quasi tutto, ma occorre anche qualcosa di originale. Noi siamo vicino alla giungla del Bengala, dove regna sovrana la tigre con tanti altri tipi di animali. Occorre qualcuna o qualcuna che sappia disegnare e riprodurre il disegno sul chot. Scopro così anche l’artista, che è Chaya, la moglie di Niranjon, direttore della nostra scuola. Lei disegna e prepara i modelli e le altre donne eseguiranno il lavoro. Così il Centro, specializzato in Hessina Embroidery (ricami in stoffa di sacco), può partire e man mano troveremo il modo di organizzarci meglio.

Per sommi capi vi ho raccontato la vicenda del Centro del Cucito, che ha come protagonista il chot, un tessuto ruvido e disprezzato dai Bengalesi: alle volte si vede in giro gente uscita di testa (in bengalese queste persone le chiamano: pagol) rivestita di stoffa di sacco. Per il Chot, a cui nessuno dà valore, è stato coniato un aneddoto proverbiale che in bengalese dice: “Borodole chot manush hoe gheche, che significa: a Borodol il chot ha guadagnato dignità umana”!

Scusatemi se mi sono diffuso nella descrizione di questa attività che a me sta tanto a cuore e che considero altamente evangelica perché va incontro ai poveri: “Quello che avrete fatto ad uno solo di questi piccoli, lo avrete fatto a me”. Un grande saluto allora ed una preghiera per me. Vostro Antonio.

Esemplari di tappeti di stoffa di sacco nella chiesa di Borodo.

Esemplari di tappeti di stoffa di sacco nella chiesa di Borodol

 

BORODOL, 14.04.1980 - Honda 50

Carissimi,

Sono in debito con voi di due lettere. Sono contento delle belle notizie che mi date e spero che il Signore continui a benedirvi e a proteggervi. Mi dispiace di non essermi fatto vivo in occasione della Pasqua. Spero mi perdionate. Potete immaginare come questa solennità, specie in missione, comporti per noi tanto lavoro, perché rappresenta il punto centrale nel cammino di catechesi e di istruzione che si fa durante l’anno. A proposito della celebrazione della Pasqua quest’anno a Borodol, voglio raccontarvi un episodio che vi farà ridere come ha fatto crepare dal ridere i confratelli quando l’hanno sentito raccontare. Sapete che la Liturgia Pasquale incomincia con la benedizione del fuoco all’aperto. Ora, a tal proposito, io avevo preparato un bel fascio di legna e l’avevo collocato al centro del cortile della missione. A mezzanotte in punto insieme ai fedele dalla chiesa andiamo verso il cortile per dare inizio alla Veglia Pasquale. Con la pila illumino il luogo dove avevo collocato la legna, illumino anche tutto intorno, ma la legna non c’è! Evidentemente qualcuno l’aveva fatta scomparire; con quel bel fascio di legna, il fuoco della cucina sarebbe stato alimentato per più di qualche giorno. Questo episodio per lungo tempo è diventato la favola della missione di Borodol!

Ringrazio di vero cuore Lucia per tutto l’interesse e la passione che ha mostrato per il lavoro della nostra gente. Siamo ancora agli inizi ed il lavoro da fare è ancora tanto a livello di organizzazione ed anche per migliorare la produzione. Ma la cosa più bella è proprio questa: il lavoro! che tante donne possano lavorare e possano essere anch’esse artefici di questo sviluppo, che è così lento a vedersi qui. Prima, qui a Borodol, nessuna donna sapeva cos’era un poesha (poesha = centesimo della taka). Ora tra quelle che lavorano al Centro del Cucito e quelle che producono il madur (stuoie) sono in tutto un centinaio e possono rappresentare una forza d’urto notevole in questo ambiente tanto depresso a tutti livelli. Cerco d’inculcare loro il senso del risparmio, che è quasi completamente assente, perché non hanno nesuna preoccupazione per il futuro. Se oggi hanno in mano qualche taka, la consumano fino all’ultimo poesha e poi domani Dio provvederà! Per questo sia tra le donne del Centro del Cucito come tra quelle che lavorano alle stuoie abbiamo creato due casse di risparmio (shomobae shomity). Ogni donna, quando al termine della settimana consegna il suo lavoro e riceve la sua paga, dà in deposito due taka.

I problemi naturalmente qui sono enormi e spesso ci si sente impotenti: come si può arrivare da soli a tutto? L’assistenza sanitaria è praticamente nulla; la mancanza di igiene è assoluta e quando capita che uno si ammali, per la famiglia è assolutamente impossibile affrontare le spese del medico e delle medicine. Dimenticavo di dirvi che da poco più di un mese mi è stata data in dotazione una moto giapponese Honda 50, che mi permette di raggiungere i villaggi con maggiore facilità, almeno durante la stagione asciutta, poi, con l’arrivo della tagione delle piogge, bisogna affidarsi di nuovo alla barca, perchè i sentieri diventano impraticabili. La moto è leggera e si carica facilmente sulla barca per l’attraversamento dei fiumi. Finisco qui, ringraziandovi ancora una volta di tutto. Pregate per me. Vi abbraccio tutti caramente. Vostro Antonio.

 

Natale a Goroikali 1979

Natale a Goroikali 1979

 

BORODOL, 31.08.1980 - Pazienza!

Carissimi,

Era da tempo che non ci si sentiva più, poi, finalmente, alcuni giorni fa, ho ricevuto la vostra cara lettera. Quando la mia risposta vi raggiungerà, le vostre ferie saranno già finite. L’anno prossimo, a Dio piacendo, passeremo l’estate assieme. Qui siamo nel pieno della stagione delle piogge. Nel nord del Bangladesh ci sono state alluvioni con centinaia di vittime e danni incalcolabili nelle colture a riso. Qui la natura ogni anno ci riserva delle amare sorprese. Non ricordo se ve lo abbia ancora detto, ma a suo tempo avevo ricevuto le 200 mila lire, risultato della vendita dei lavoretti del nostro Centro del Cucito. Non ho parole per ringraziare soprattutto Lucia per la generosità con cui si è prodigata nello smercio del nostro prodotto.

Adesso ci stiamo oeganizzando anche a livello di mercato e così spero di non disturbarvi più per la vendita degli articoli. Ho preso contatto con uno dei nostri padri, P. Giovanni Abbiati, originario di Sondrio in Valtellina, il quale da anni lavora nell’artigianato ed ha una lunga esperienza in materia. Mi ha chiesto una lista degli articoli che produciamo con relativa foto e sigla con cui il prodotto è registrato. La nostra sigla è BOH, seguita da 1,2,3, ecc. BO sta per Borodol e H per Hessian Embroidery. Ci sono regolari spedizioni per nave a gente, che è interessata ai nostri articoli e così non ho più da arrovellarmi il cervello per provvedere alla vendita. Spero che la cosa possa avere un seguito sempre migliore e assicurare così un futuro alle nostre donne.

La stagione delle piogge è sempre il periodo più critico per la nostra gente. La situazione poi quest’anno ci ha riservato un’amara sorpresa, perché la scorta di mele (ricordate il materiale con cui si fanno le stuoie?) si è esaurita circa tre mesi fa e cioè proprio all’inizio della stagione delle piogge, quando non si trova più il mele e quando il lavoro è più urgente e necessario. Così improvvisamente il lavoro è venuto a cessare per 45 famiglie. La colpa è di Judisti, il mistri Hindu, che presiede ai lavori e non mi ha avvisato al momento giusto. Avrete ormai capito, penso, che i miei problemi qui sono soprattutto di quest’ordine e cioè coincidono con quelli della sopravvivenza della mia gente. Forse voi siete ormai stanchi di sentire da me sempre le stesse cose, ma per me questi sono problemi d’ordine vitale. Senza dire che questa è solo una minuscola parte degli avvenimenti di ogni giorno, a raccontare i quali non si finirebbe mai.

Qui la gente se ha mal di testa viene dal padre e se ha mal di pancia viene ancora dal padre. Questo per dirvi che l’assistenza sanitaria è un problema grosso. Nessuno può affrontare la spesa per andare dal medico, che di solito medico non è, ma praticante, che in bengalese chiamano kobiraj, l’equivalente di quello che in Africa chiamano stregone. Proprio questa mattina abbiamo dato sepoltura ad un bambino morto di tetano ed è il secondo in pochi giorni. Questo perché vecchie megere, che svolgono la funzione di levatrici, non hanno la minima nozione di igiene e per tagliare il cordone ombelicale si servono di lamette arruginite o utensili simili. Come vedete, accanto al problema del lavoro, c’è anche quello più scottante dell’educazione. Ci vuole tanta pazienza, perhé, come potete immaginare, si vorrebbe risolvere i problemi tutti in una volta e invece questo è un processo lungo che richiede nervi saldi. Se riuscirò ad avere le suore, penso che esse potrebbero darmi un valido aiuto in questo settore. Voi intanto pregate perché il Signore mi illumini e mi dia anche tanta pazienza, che, mi accorgo, senza togliere il primato alla fede e all’amore, è una virtù di capitale importanza per chi vuole lavorare tra i Muci. Aspetto di avere notizie fresche da voi. Saluti cari a tutti. Vostro Antonio.

 

Fare del mestier virtù.Qui medico improvvisato.

Fare del mestier virtù.Qui medico improvvisato.

BORODOL, 01.11.1980 - p. Piero

Carissimi,

Dovete scusarmi se da tanto tempo non mi sono fatto più vivo e non ho risposto alle vostre lettere. Spero mi comprenderete e perciò mi scuserete. Piano piano anche voi entrate a far parte di questo mondo. Ormai conoscete già tutto e siete anche in grado di darmi dei suggerimenti. C’è un problema di cui non ho ancora parlato con voi ed è quello dei giovani. Come ormai sapete, la missione di Borodol fu abbandonata a se stessa per sette/otto anni e in questo lungo lasso di tempo chi ne ha sofferto di più è stata l’alfabetizzazione. Abbiamo una larga fascia di giovani, che non sono andati oltre la quinta elementare e, non avendo un lavoro che li tenga occupati, fanno il mestiere dei fannulloni girovagando dal mattino alla sera e creando, alle volte, seri problemi.

Alcuni anni fa nella missione di Satkhira, da cui una volta dipendava Borodol, per iniziativa di P. Sebastiano Tedesco, si era dato vita ad una attività che vedeva impegnati soprattutto i giovani. L’attività riguardava la lavorazione della pelle, in cui i nostri Muci sono maestri. Si producevano borse e borsellini, portafogli ed altri oggetti vari. In più era nato un connubio di lavorazione tra la pelle ed il filo di iuta. Qualche anno fa la direzione dei lavori è passata nelle mani di P. Enzo Falcone, il quale è un artista, ricco di fantasia, capace di creare sempre nuovi modelli di lavoro. Tra l’altro a questa attività ha dato anche un nome chiamandola “Rishilpi”, che è la compilazione di due termini: Rishi è uno dei tanti nomi con cui vengono identificati i nostri fuoricasta, e Shilpi, che in bengalese significa maestro d’arte, artista.

Sotto la direzione di P. Enzo l’attività ha avuto una larga espansione ed una richiesta di prodotti dentro e fuori il Bangladesh. Di qui la necessità di nuova manodopera. Venendo incontro a questa esigenza, su richiesta di P. Enzo, all’inizio di quest’anno, da Borodol e da altri villaggi ho mandato 25 di questi giovanotti disoccupati. Qualcuno di essi già mi è tornato indietro: è troppo faticoso! Spero che gli altri resistano e pensino a costruirsi il loro futuro. A riguardo delle varie iniziative intraprese per l’elevazione sociale della nostra gente, ho potuto constatare che le donne sono più affidabili e su di loro si può scommettere. Non così con gli uomini. Ricordate il fiasco della calzoleria? Accanto a questo fallimento devo annoverarne altri due al seguito di iniziative intraprese con i miei giovanotti fannulloni.

L’apicoltura è molto in voga nella nostra zona vicina alla foresta tropicale. Avevo preso contatto con un apicoltore di un villaggio vicino e gli avevo chiesto se potevo mandargli due giovanotti perché imparassero il mestiere. Shunil Shing e Jogodish Mondol sono i prescelti. Rimangono presso l’apicoltore 15 giorni per il training. Ritornano e con entusiasmo danno vita all’apicoltura di Borodol. Spese per il training e spese per sistemare 5 alveari. Tutto sembra funzionare a dovere. Ma arriva la stagione delle piogge. E’ il periodo critico in cui le api non trovano facilmente il nettare ed hanno perciò bisogno di un’attenzione particolare. Si profila un nuovo fiasco, perché i due improvvisati apicoltori non si prendono la cura delle api, che un po’ alla volta sciamano tutte. Di un’altra iniziativa e di un altro fiasco con i giovani ve ne parlerò fra pochi mesi quando tornerò in Italia.

E adesso ho una notizia bomba da comunicarvi. Da quindici giorni circa e cioè da metà ottobre è venuto a stare con me un altro padre; il suo nome è Piero Colombara, un veneto, che ha qualche anno più di me e da circa 10 anni lavora in Bangladesh. Ha una lunga esperienza soprattutto a livello sociale, in quanto, fino all’anno scorso, ha lavorato in seno ad organismi internazionali di sviluppo ed è stato per un certo periodo anche direttore regionale della Caritas di Khulna. Ora però ha fatto una scelta ed è venuto a stare con me per vedere fino a qual punto le buone idee che lui ha predicato in giro possono essere messe in pratica at grass root level, come dicono gli Inglesi. Ho avuto l’assicurazione che lui resterà qui fino al mio rientro dall’Italia. Come potete immaginare, per me è stata una vera benedizione e devo dire che ho ottenuto proprio l’aiuto che desideravo, perché è giunto il momento in cui bisogna lavorare di più a livello educativo ed organizzativo e P. Piero con la sua larga esperienza mi sarà senz’altro di grande aiuto. Termino qui, anche se le cose da dire sono ancora tante. Nella vostra preghiera, d’ora in poi, ricordatevi di me e di P. Piero. Vi abbraccio tutti caramente. Vostro Antonio.

 

Intermezzo: LA LUNGA LOTTA PER ESTIRPARE LA PIAGA SOCIALE DEI MUCI DI BORODOL E DINTORNI

1. PICCOLA PREMESSA E IMPOSTAZIONE DELLO STATUS QUAESTIONIS. Nel cammino a ritroso per ripercorrere la storia dei miei quasi 12 anni di missione a Borodol attraverso la pubblicazione delle lettere, è necessario, a questo punto, aprire una parentesi per affrontare un argomento scottante. Si tratta di quella che io definisco “la piaga sociale” dei Muci di Borodol e dintorni, rimasta tale anche dopo la loro conversione al Cristianesimo. Nei diarii dei Gesuiti, che per primi vennero a contatto con loro, c’è qualche accenno al problema, ma non appare una policy, una direttiva chiara a riguardo. Nel 1952 i Saveriani subentrarono alla guida delle due missioni di Satkhira e Borodol. Non risulta che essi dessero molta importanza al fenomeno. La piaga su cui mi accingo a parlare trova la sua esplicitazione in un trinomio: avvelenamento delle mucche o capre, scoiamento delle medesime ed il mangiarne le carni in via di putrafazione (in bengalese: bish dewa, goru kata e mora mannkso khawa). Questa piaga rappresenta per i nostri quella che era per gli Ebrei l’Egitto, il luogo della schiavitù, da cui bisogna uscire per andare incontro alla libertà e vincere tutte le paure che li tengono bloccati e rendono vano ogni tentativo di liberazione che viene dall’esterno.

  1. LA STRETTA CONNESSIONE CON L’ANNUNCIO DEL VANGELO. Non so se riuscirò a trasmettere l’importanza di questa lotta strettamente connessa all’annuncio del Vangelo. Quello che sto per scrivere in queste righe non è mai stato scritto da nessuno e porta inevitabilmente i connotati della mia visione delle cose per aver partecipato direttamente alla lotta. La piaga sociale, di cui sto iniziando a parlare, riguarda (al momento storico: riguardava!) soprattutto i Muci che vivono al sud, al margine della foresta tropicale. In quesr’area, fatta eccezione di Borodol, la capitale (rajdhani) dei Muci del sud, tutte le para (para= raggruppamento di capanne) non andavano oltre le 40/50 capanne ed erano tutte collocate sulla riva dei fiumi. Perché al sud e perché sulla riva dei fiumi? Nel sud del Bangladesh, a causa della salsedine, c’è solo una raccolta di riso all’anno, propiziata dalla stagione delle piogge, che rendono l’acqua dolce ed il terreno pronto ad accolgliere la coltivazione del riso.
  2. COME SI SVOLGONO LE TRE OPERAZIONI. Ci sono sterminate estensioni di terreno chiamate bil. Dopo il taglio del riso, sul bil vengono al pascolo mandrie di mucche e bufali. E’ questo il momento in cui entrano in azione i nostri. Uno di loro, esperto avvelenatore esce alla chetichella, nel primo pomeriggio, quando il sole scotta di più e si porta sul campo di lavoro. Il veleno, chiamato tipni in thar bhasha (thar bhasha è il linguaggio segreto dei Muci), di solito viene dall’India (ovviamente i loro colleghi!) e c’è tutta una tecnica per somministrarlo e renderlo efficace. L’operazione, come dicevo, di solito avviene nel pomeriggio quando i pastori (rakhal) stanno facendo la loro siesta. Un paio di ore dopo, le bestie avvelenate cadono distese con gran raccapriccio dei guardiani, i quali non hanno nessun sospetto sulla causa del decesso. Il giorno dopo, di buon mattino, a colpo sicuro, i nostri si recano a raccogliere la preda, che nessun altro osa toccare per paura di venir contaminato. Incomincia l’operazione di squartamento e di scoiatura per ricavare la preziosa pelle ( in thar bhasha: tolpi). Segue la distribuzione o la vendita della carne (mora manksho) a buon mercato all’interno della para. L’atto finale è la conciatura della pelle, che viene opportumente stesa a terra e  trattata col sale. Lascio immaginare a voi la fragranza del profumo, che si diffonde in tutta la para. Mi viene in mente un episodio del primo anno di presenza a Borodol. Stavo visitando le famiglie. Nell’entrare in una cappanna, mi venne al naso un odore strano; mi guardo intorno, alzo gli occhi e vedo sul tetto della capanna strisce di carne di mucca poste ad asciugare e sciami di mosche che vi danzavano sopra.
  3. DESCRITTO IL CAMPO DI BATTAGLIA, QUALE LA STRATEGIA? Questo era il quadro e questo il campo di battaglia. Ovviamente l’avvelenatore era uno solo, ma tutti partecipavano e tutti erano più o meno implicati. Non c’erano dubbi. Questo era il principale ostacolo che impediva ai Muci di acquisire la dignità di uomini nei confronti delle altre comunità Hindu e Musulmane. Ancora agli inizi di questa storia, un matubbor (capo villaggio) di Goroikhali di nome Biswanath Mistri, il papà di Mario, che sarebbe diventato il primo sacerdote della parrocchia di Borodol, interpellato da me sull’argomento, mi riferiva un proverbio molto espressivo ed esplicativo. Mi diceva: “veda, padre, per quanto lo shokun (shokun è l’avvoltoio) voli in alto, il suo sguardo è sempre rivolto verso la preda. Il provervio esprime chiaramente quale immagine il Biswanath avesse della sua gente e, ovviamente, anche di se stesso. Una volta mi recai dal vescovo, Michael D’Rozario, primo vescovo bengalese della diocesi di Khulna, ad esporre la situazione ed avere suggerimenti per una eventuale azione pastorale. Egli mi smontò subito dicendo: “veda, padre, l’avvelenamento delle bestie è certo un reato e bisogna combatterlo, ma lo scoiare è un mestiere come gli altri; il mangiare carne morta poi può sì recare danno alla salute, ma quello che mangiamo non contamina l’uomo, lo dice anche Gesù nel vangelo”. Me ne tornai con le pive nel sacco, sconfitto sì, ma con dentro la speranza che prima o poi i tempi sarebbero maturati. Non comprendeva il mio vescovo, pur essendo bengalese, quella che io ho definito la legge del trinomio e cioè come le tre azioni fossero strettamente collegate fra di loro e volendo eliminarne una, bisognava eliminarle tutte e tre. La chiosa più indovinata a questo atteggiamento del vescovo me la dava il mio catechista Mothi Shing, mio braccio destro nei primi tre anni di missione a Borodol, quando gli riferii l’esito dell’incontro con il vescovo. “Padre, Mothi mi disse, il vescovo è della stessa idea degli Hindu e dei Musulmani; vuole che rimaniamo così come siamo perché tutti possano spadroneggiare su di noi”.
  4. L’ARRIVO DI P. PIERO COLOMABARA NELL’OTTOBRE DEL 1980. Prima dell’arrivo di P. Piero Colombara a Borodol io non avevo intrapreso alcuna azione a riguardo, perché ero dell’idea che occorreva in primo luogo offrire alla gente alternative di lavoro e questo era stato fatto in larga misura a Borodol, ma anche negli altri villaggi. La battaglia incominciava a Borordol. A battaglia combattuta e vinta, il centro della missione diventava il modello per gli altri villaggi. (A questo punto, per completare il quadro, suggerirei di leggere o rileggere la relazione da me fatta all’Assemblea dei Saveriani nel 1983, dove parlo del mio rapporto con P. Piero Colombara).

Chuknagar, 20.04.2020 – p. Antonio Germano Das sx.

 

RELAZIONE SU BORODOL: 1978-1983

In questa relazione su Borodol seguo un criterio cronologico, secondo le tappe di un cammino: dalla riapertura della missione di Borodol, avvenuta nel maggio 1978, fino ad oggi settembre 1983. Queste tappe sono chiaramente individuate in tre periodi: I. – PERIODO DA SOLO

II. – PERIODO CON P. PIERO COLOMBARA
III. – PERIODO CON P. OSVALDO TORRESANI

I. – PERIODO DA SOLO
Su questo primo periodo io avevo già dato una relazione circa tre anni fa, ma i Padri superstiti di quell’epoca non sono poi molti e perciò essi m perdoneranno se prendo le mosse ancora da lontano. Questo permetterà a me un ritorno alle radici di una scelta e nello stesso tempo serve a completare un quadro che per la maggior parte dei presenti potrebbe risultare poco chiaro. In questa rievocazione figureranno nomi di assenti. La mia visione naturalmente è parziale e se i suddetti Padri fossero presenti, con i loro interventi, potrebbero renderne più oggettivo il senso.

1. – DESTINAZIONE BORODOL
Innanzi tutto: come avvenne la mia destinazione a Borodol? Non conosco il dibattito precedente, ma so che Borodol saltò fuori come proposta per me nell’ultimo mese di permanenza a Barisal per lo studio della lingua. Il Consiglio Regionale a quell’epoca era formato dai pp. Tedesco, Ghirardi, Boscato, Rubini e Caldognetto. P. Tedesco sosteneva apertamente la riapertura di Borodol, qualcuno era decisamente contrario, come p.Ghirardi, altri, invece, pur propensi alla riapertura, erano contrari a che la responsabilità ricadesse su un pivellino come il sottoscritto.
Proprio in quel mese di aprile, p. Storgato aveva trascorso due o tre giorni a Borodol, visitando anche qualche villaggio vicino ed aveva fatto circolare un paper, che voleva essere una specie di survey con proposta di soluzioni concrete. In sostanza, il padre, pur affermando la necessità di riaprire Borodol, suggeriva che ne venisse affidata la responsabilità ad un padre esperto di vita bengalese e faceva espressamente il nome di p. Tomaselli.
Ad ogni modo, quando in sede di Consiglio Regionale mi venne fatta la proposta, io la considerai come una sfida alle mie ragioni di fede e con un pizzico di incoscienza l’accettai. La clausola comunque era che io andassi a Satkhira e da Satkhira tenessi d’occhio Borodol. Anche l’unica lettera di appointment del Vescovo ricevuta fino ad ora parlava in questi termini: andare a Satkhira con l’incarico di curare Borodol. Della comunità di Satkhira, su tre padri, due erano contrari a questa linea, perché pensavano che in tal modo la responsabilità della conduzione di Borodol ricadeva nuovamente su Satkhira, cosa che loro naturalmente non volevano.
Date queste premesse, dopo una prima visita a Borodol, resomi conto delle distanze e delle difficoltà di comunicazioni, tenendo presente che attorno a Borodol c’era un’altra rosa di villaggi, alcuni dei quali molto lontani dal centro, presi la mia decisione, che risultò, almeno formalmente, contraria a quella espressa dal Vescovo e dal Superiore Religioso. Segretamente però sia il Vescovo sia il Superiore propendeva in questa direzione. Così la mia decisione fu di stare a Borodol senza perdere i contatti con Satkhira, che rimaneva la mia comunità di appoggio. Secondo molti, il mio fu un atto di incoscienza e, a distanza di anni, confesso che ci fu un po’ di presunzione da parte mia. Ma all’origine della mia scelta c’era una motivazione di fede ed anche qualche altra idea, che poi presentai come proposta al capitolo regionale del ’79. In sostanza l’idea era di snellire e ravvivare i nostri centri di struttura, rappresentati soprattutto dalle parrocchie. A mio parere esisteva un modo per rinnovare la struttura e renderla più adeguata alla realtà bengalese ed il modo era di non collocare più di un padre in ogni centro parrocchiale. La mia posizione naturalmente era contraria alla conclamata vita comune riaffermata con valore negli Atti del Capitolo Regionale del “77. Ma, a mio avviso, quello della vita in comune era un tabù da sfatare. Non si trattava tanto di mettere in discussione il valore della vita in comune in se stesso, quanto piuttosto il tipo di vita comunitaria fino allora attuato. Secondo me, una comunità di vita ridotta a nostro livello (di preti e di suore) ci escludeva dalla vita degli altri. L’affermata necessità di questo tipo di vita comunitario poteva essere un punto di sicurezza psicologico, non certo espressione del carisma evangelico. Rompendo questo anello, pensavo, ci sarebbe stato possibile entrare più in comunione con i locali e dare origine a nuovi tipi di vita in comune. “La vita è il paragone delle parole”, dice il Manzoni e, in effetti, l’esperienza ridimensionò parecchio le mie idee. Tra l’altro, avevo deciso di non portarmi dietro nessun tipo di motore, ma, verso la fine di quel ’78, P. Serafino, operato di cancro, torna in Bangladesh portandosi dietro due generatori, destinati ovviamente a Borodol.
Dopo due anni di presenza a Borodol, dopo aver sperimentato tutti i locali mezzi di trasporto, Dalla barca all’elicottero (così viene chiamato in zona la bici a due posti, uno per il guidatore e l’altro per il passeggero a bordo; chiamato scherzosamente elicottero, perché è il mezzo più veloce di trasporto nella zona), con l’esperienza dell’assalto dei dacat (=briganti) e dopo essermi beccato qualche malanno, mi decisi ad usare la moto e così anch’io rimasi completamente inserito in quelle strutture, che, all’inizio, avevo sognato di cambiare.
Non c’è nessuna punta di ironia in questo processo sulla caduta degli déi, ma solo un po’ di rammarico per non essermi mosso secondo una linea di coerenza. La vita, dopo tutto, è la risultante dei limiti che portiamo dentro di noi, che sono tanti e dei limiti, che sono al di fuori di noi e che sono, essi pure, tanti. Il confronto sincero con la Parola di Gesù ci aiuta a renderli strumenti di salvezza per noi e per gli altri.

2. UN PO’ DI STORIA
Sommariamente: – dall’inizio della missione, che risale al 1937, fino al 1958, Borodol, amministrativamente, dipende da Satkhira.
– Dal 1958 P. Serafino incomincia a risiedere in maniera stabile a Borodol, dando inizio ad una amministrazione autonoma con registri parrocchiali propri. Questo periodo si estende fino all’inizio della guerra di indipendenza dal Pakisthan. – Segue poi il periodo di abbandono, in cui Borodol torna ad essere ammininistrata da Satkhira.
– C’è infine la riapertura di Borodol, ufficialmente avvenuta nel maggio del ’78 e la situazione presente.

Alcune conseguenze di questo processo storico discontinuo:
a). La prima conseguenza è quella di una situazione anagrafica assai confusa. La discontinuità di conduzione della missione si ripercuote a livello anagrafico di ufficio con complicazioni facilmente indovinabili.
b). La seconda conseguenza è quella di un gap difficilmente colmabile. C’è tutta una generazione, quella che attualmente va dai 20 ai 30 anni, a cui è venuto a mancare nel momento giusto l’opportuno aggancio educativo. Essi appaiono sbandati e senza una base di richiamo da cui ripartire.
c ). Le conseguenze dell’abbandono si rivelarono negative soprattutto per gli altri villaggi. Se non altro a Borodol era rimasta la scuoletta che funzionava e c’era rimasto anche il catechista. Inoltre, un padre veniva periodicamente da Satkhira per mantenere i contatti. Gli altri villaggi invece erano rimasti nel più completo abbandono e in più di qualche posto erano tornati alle antiche pratiche.
3. ATTUALE CONFIGURAZIONE GEOGRAFICA ED ANAGRAFICA
I villaggi con cui sono stati riallacciati i rapporti sono:
– Borodol con Nuton Burya e Puraton Burya: un centinaio di famiglie in tutto;
– Jamalnogor (Keargati) con 20-25 famiglie;
– Alomtola con 25 famiglie;
– Goroikhali con 30 famiglie;
– Mojidkur con 12 famiglie.

Ci sono tanti altri villaggi divenuti cristiani al momento del relief (in seguito alla guerra di liberazione dal Pakisthan) o anche prima, con cui non sono stati riallacciati i rapporti. Recentemente almeno due di questi villaggi hanno chiesto di ritornare.

4. CONFIGURAZIONE SOCIO-ECONOMICA E TENTATIVI FATTI NEL SETTORE
I Cristiani-Muci di Borodol, che sono senza terra, in genere non sanno apprezzarne il valore e neppure sono in grado di lavorarla. Alcuni commerciano pelli prelevando soldi in prestito dai cosiddetti mohajon (=grossi possidenti locali, strozzini-usurai), con cui sono sempre più indebitati. Altra attività è quella dei calzolai. Soprattutto a Borodol c’è un buon numero che vive sul bazar, lavorando da kuli (=scaricatori-portatori-facchini). Molti, specie negli altri villaggi, sanno lavorare il chach (stuoie o cestini di bamboo) e il bet (una liana che viene dalla giungla, con cui si fanno cesti più robusti ed anche suppellettile varia). C’è poi il gruppo dei suonatori in attività per 4-5 mesi l’anno e cioè in connessione con la celebrazione dei matrimoni e delle varie puja (festività) Hindu. Quasi in ogni villaggio si trova una specie di band party con strumenti musicali e il cosiddetto palki (un palanchino), che serve per trasportare gli sposi nel giorno delle nozze. Solo a Borodol vi sono tre band party. Sempre a Borodol un paio di persone esercita il mestiere di barbiere (il saloon è rappresentato da una sedia, collocata a lato della strada). Nel bazar di Borodol c’è un dokan (negozio), gestito da un cristiano di Nuton Burya, indebitato per altro fino al collo.

5. MIO INSERIMENTO NELLA SITUAZIONE CONCRETA
Andando a Borodol, all’oscuro di tutto, di metodi pastorali e di iniziazione alla comprensione di questo tipo particolare di gente, avevo una sola idea chiara in mente, in quanto mi dicevo: per un anno non prenderò nessuna iniziativa, mi guarderò attorno per cercare di studiare e capire la realtà che mi circonda. Ma, come spesso capita, la realtà ridimensiona le idee e i più bei propositi.
a). PROGETTI DELLA CARITAS
Prima ancora che io andassi a Borodol, P. Luigi Paggi, allora parroco di Satkhira, aveva presentato due progetti alla Caritas: – l’uno riguardava l’arginamento del fiume, che consentiva di strappare al fiume stesso una buona fetta di terra, circa 23 bigha (la bigha è la terza parte di acro).
– L’altro era un housing project, che prevedeva la costruzione di 75 casette di fango con copertura in tegole. I due progetti erano interessanti e si sono successivamente rivelati vitali per Borodol. Erano stati approvati e l’inizio dei lavori coincideva proprio con la mia andata a Borodol. Io arrivavo a Borodol in maggio e P. Luigi partiva per le vacanze in giugno e così il bel tutto mi ricadeva sulle spalle. Tralascio i particolari di questi due progetti, che porterebbero troppo lontano.

b). ALTRE INIZIATIVE DI LAVORO
A parte questi due progetti che mi ricaddero addosso senza volerlo, il proposito iniziale di stare a guardare riuscii a mantenerlo per un paio di mesi. Poi, con l’inizio della stagione delle piogge, cominciarono ad emergere l’uno dopo l’altro i problemi:
– attività dei kuli al bazar ridotta a metà;
– attività dei suonatori interrotta;
– calzolai, anch’essi a riposo.
Sotto la pressione di questi fatti esterni, mi decisi ad agire, convinto che era impossibile affrontare qualsiasi problema educativo senza una base minima che consenta alla gente di vivere. Mi resi conto cioè che il seme della parola può fruttificare soltanto là dove l’uomo si libera e si redime con la fatica ed il lavoro. Mi ispirai ad un motto di ascendenza benedettina: l’ora et labora, che tradussi nell’equivalente bengalese di dhormo (religione) e kormo (lavoro) avrebbe guidato il mio tipo di presenza e attività a Borodol.

1. IL CENTRO DEL CUCITO
Era preoccupante soprattutto la situazione delle donne, le quali non facevano che litigare dal mattino alla sera e spesso anche di notte. Allora mi dicevo: qui ci vuole un rimedio e la medicina possibile ed efficace la vedevo nell’occupazione, nel lavoro. Fu così che, non sapendo che sbocco avrebbe potuto avere, aprii il centro del cucito, che attraverso un processo, che sarebbe lungo spiegare, è diventato l’Hessian Embroidery Centre, in cui attualmente lavorano 25 donne e due sarti ed ha trovato anche la sua sede nel Community Centre. Le donne del centro del cucito diedero subito vita anche ad un Somobay Somiti (cassa di risparmio), che attualmente ha in banca intorno alle sette mila taka.
2. IL CENTRO DEL MADUR. Avevo notato che al bazar di Borodol ogni domenica c’erano montagne di madur. Poi ero venuto a sapere che Borodol era il mercato nazionale del madur, in quanto bepari (=commercianti) da Dhaka, Khulna ed altri posti vengono a prelevarne in grande quantità. Mi chiesi perché la nostra gente non avrebbe potuto fare questo lavoro, tutto a livello locale: materiale e mercato. Invitai così un mistri (=competente del mestiere), perché insegnasse alla nostra gente. Furono comperati al bazar quei telai rudimentali, cosiddetti beo, con cui si imbastiscono le stuoie ed un primo quantitativo di mele (si chiama così quel tipo di giunco con cui è fatto il madur e che cresce sulla riva dei fiumi). Ogni settimana veniva dato il training a 6-7 persone, le quali, imparato il mestiere, portavano il telaio nelle proprie case e lì continuavano il lavoro. Con questo processo arrivai a coinvolgere una buona quantità di popolo. Nel periodo migliore vi erano coinvolte 45 famiglie. Anche questa attività teneva impegnate soprattutto le donne.
P. Piero Colombara, quando arrivò a Borodol, trovò questa iniziativa esaltante al punto che, quando io ero in Italia per le vacanze, aveva preparato un progetto un po’ faraonico, che estendeva il lavoro ad altri villaggi, coinvolgendo qualcosa come 700 famiglie. La Caritas gli fece mille obiezioni ed il progetto non passò. Poi, l’anno scorso, P. Piero trovò che il metodo con cui io portavo avanti il lavoro e che andava bene per un progetto allargato a 700 famiglie, non era più adeguato. Lui voleva una maggiore presa di responsabilità da parte della gente. Per ottenerla propose un metodo di lavoro che la gente non accettò. Così, dopo un tira-molla durato alcuni mesi, quando la gente si rifiutò di lavorare a quelle condizioni, P. Piero decise di vendere al bazar lo stock di mele, già confezionato per il lavoro. Per lui fu un’operazione semplice, ma per me che iniziato questo tipo di attività e che conoscevo i precedenti non fu una pillola tanto dolce da digerire. Anche l’attività dei madur era accompagnata da un somobay somiti, andato anch’esso in fallimento poi.
Queste due iniziative erano state affiancate da altre di portata più ristretta sia al centro sia negli altri villaggi. A Borodol avevo dato inizio ad una karkhana (fabbrica) delle scarpe, che poi risultò un fallimento. In quasi tutti gli altri villaggi c’erano le attività stagionali del chach (stuoie di bamboo) e del bet (una liana per suppellettile varia), che venivano incentivate attraverso prestiti, che dovevano essere restituiti e che rimanevano come revolving fund per la stagione successiva. In alcuni villaggi la cosa funzionò, in altri invece si rivelò un fallimento. 6. RIORGANIZZAZIONE PASTORALE
Arrivato a Borodol, avevo trovato un solo catechista, Mothi Sing, che si rivelò un prezioso collaboratore. Dirigeva la scuoletta di Borodol, di cui era anche maestro e nello stesso tempo svolgeva la funzione di catechista. Nel primo anno di presenza a Borodol, non mi ero preoccupato di riallacciare i rapporti con gli altri villaggi, legati nel passato alla missione, perché pensavo di averne abbastanza con Borodol. Mi accontentavo di fare delle puntatine rapide, per rendermi conto della situazione. Nella maggior parte dei villaggi la chiesetta era andata distrutta e la gente non si era preoccupata di ricostruirla. In nessuno dei villaggi c’era l’abitazione per il catechista. Quando, dopo un anno di permanenza a Borodol, decisi di riprendere l’attività anche negli altri villaggi, adottai la seguente policy:
– ristabilire innanzi tutto i rapporti con quei villaggi, che avevano ripetutamente richiesto;
– esigevo poi che nei villaggi dove la chiesetta era andata distrutta, fosse ricostruita dalla gente. Volevo rendermi conto, cioè, fino a qual punto il loro interesse religioso era sincero. Con questo metodo ottenni che in almeno 3 villaggi (Goroikhali, Mojidkur e Puraton Burya) si ricostruissero da soli la chiesetta;
– Infine, nell’assegnare i catechisti, concordavo una specie di contratto secondo il quale la gente si impegnava a fare la propria parte per il catechista. Così in 3 villaggi (Goroikhali, Alomtola e Mojidkur) la gente si impegnò a dare da mangiare al proprio catechista.
Ci fu un periodo in cui P. Pierluigi Lupi sembrava che volesse seguire i due villaggi di Alomtola e Goroikhali. Fece in tempo a costruire la chiesetta e la casa del catechista e a chiudere di nuovo Goroikhali, perché aveva rifiutato il catechista, ma poi P. Lupi prese un’altra direzione

7. GIUDIZIO CRITICO DI QUESTO PRIMO PERIODO
A distanza di anni, pur riconoscendo i miei errori, che furono tanti, devo dire che quella fu per me una immersione e un bagno nella realtà di questa gente, che prima non conoscevo e che poi cominciai a conoscere e ad amare pur nei suoi difetti. A livello spirituale, i due anni e mezzo trascorsi a Borodol, furono soprattutto un’esperienza di fede.

II. PERIODO CON P. PIERO COLOMBARA: OTTOBRE 1980-MARZO 1983
La venuta di P. Piero a Borodol fu come una bomba per tutti, perché nessuno dei confratelli si aspettava una mossa simile, anche perché, prima ancora che andasse in Italia per le vacanze, era preconizzato parroco a Satkhira. Anche a me suonava strana la cosa e, ad ogni modo, dicevo: finché non lo vedo a Borodol, non ci credo. Tutti riconoscevano a P. Piero una larga preparazione ed esperienza soprattutto in campo educativo-sociale. Lo rivolevano indietro alla Caritas e tanti altri posti erano disponibili per lui nella diocesi di Khulna. Ma lui scelse di venire a Borodol, “per venire a mettere in pratica, at grass root level”, come soleva dire, quello che aveva insegnato per 3 anni girando il Bangladesh per il settore educativo della Caritas. Ad ogni modo venne a Borodol con la lettera di appointment del vescovo, in cui gli si diceva di stare con me a Borodol e di rimanervi fino al mio ritorno dall’Italia, dopo di che sarebbe passato a Satkhira come parish priest, decisione questa che doveva comunque essere ratificata in seguito. Quanto a lungo P. Piero sarebbe rimasto a Borodol? Questo rimase un interrogativo costante della sua presenza a Borodol. Lo seppi chiaramente solo quando lasciò Borodol nel marzo di quest’anno e cioè dopo tutto 2 anni e mezzo.
Devo dire, come premessa, che quello trascorso con P. Piero fu un periodo ricco esperienza per me e ricco di avvenimenti per la gente. Senza volere giudicare P. Piero, per il quale ho avuto e continuo ad avere un grande rispetto, devo comunque dire che la costanza non fu certamente una caratteristica della sua azione. Quello che aveva trovato andare bene per oggi, domani certamente non poteva rimanere uguale. Aveva il pallino della ricerca e della continua sperimentazione. Ad ogni modo, volendo puntualizzare gli aspetti positivi della sua presenza a Borodol, essi si possono così sintetizzare:

1. – SFORZO DI USCIRE DAL GHETTO DEI CRISTIANI
Innanzi tutto P. Piero ha contribuito moltissimo ad allargare gli orizzonti della missione sia attraverso la sua azione personale sia servendosi di altri agenti, come la Caritas, per esempio. Nel periodo in cui ero rimasto da solo, preso dal cumulo delle attività e dalla preoccupazione di riorganizzare la missione, io, in un certo senso, ero rimasto prigioniero del ghetto dei cristiani. P. Piero portò a Borodol nuova aria balsamica. L’apertura del dispensario servì moltissimo a stabilire contatti con Hindu e Musulmani, anche perché in poco tempo si era creato attorno a lui l’aureola del dottore più famoso della zona, soprattutto dopo gli interventi miracolosi della pietra nera. Oltre che per il tramite delle medicine, P. Piero aveva allargato il cerchio coltivando amicizie tra Hindu e Musulmani, che lui stesso andava a visitare. Sempre in questa linea di rottura del ghetto, si era servito della Caritas, prima attraverso la realizzazione di housing projects, i cui beneficiari erano ugualmente Hindu, Musulmani e Cristiani e poi, servendosi di due esperti della Caritas, che lavorarono a tempo pieno, condusse una survey demografica a sfondo socio-economico su larga scala per avere un quadro completo di tutta la Union di Borodol. Campionarie di questa survey erano famiglie Cristiane, Musulmane e Hindu.

2.- TENTATIVI FATTI PER RIBALTARE LA PRESENTE SITUAZIONE DI INGIUSTIZIA
Uno dei tanti pallini di P. Piero era la rivoluzione. Lo si sentiva spesso ripetere: “La rivoluzione viene dal Sud”. Ed il Sud in questo caso era ovviamente Borodol. La sostanza di questa istanza rivoluzionaria era quella di ribaltare l’attuale situazione sociale improntata a palese ingiustizia. Oltre alla via della coscientizzazione, altro mezzo che lui perseguiva era quello di dare un pezzo di terra ai bhumihin (i senza terra): In questa direzione si era impegnato con molto entusiasmo fin dall’inizio. Lungo il corso dei fiumi c’è tutta una fascia di terra, che può essere ricuperata e utilizzata attraverso opportuno arginamento dei fiumi: è quella che si chiama khash land (terreno demaniale) e che in un disegno governativo del Presidente Ziaur Rahaman era destinata proprio ai bhumihin.
Proprio in questa prospettiva aveva adocchiato addirittura una piccola isola di circa 45 bigha nei pressi di Mojidkur e aveva subito iniziato le pratiche per ottenerla a favore dei Cristiani di Mojidkur, che sono tutti bhumihin. Così era avvenuto nei pressi di Burya, dove erano disponibili circa 30 bigha di terra. Ma, nel corso delle pratiche, si era accorto che la cosa non era così semplice come aveva immaginato. Il boro nayeb (l’ufficiale governativo incaricato) aveva chiesto, infatti, per la registrazione 8 mila taka di ghush (la bustarella di pragmatica) e cioè mille taka a testa per ciascuno degli otto futuri proprietari. Fu in questa circostanza che P. Piero fece scrivere una lettera di protesta dal Gregory (l’incaricato dei terreni per conto della diocesi), indirizzata all’O. C. (ufficiale in carica) di Assassuni ( il posto di polizia da cui dipende Borodol) con copia al boro nayeb di Burya, nella quale quest’ultimo veniva accusato di mangiare il ghush sulla pelle dei poveri.
La lettera ebbe un effetto a sorpresa, ma anche spiacevoli conseguenze per noi. Non solo non siamo più riusciti ad avere il khash land di Burya e Mojidkur, ma i grossi papaveri di Borodol, istigati dal boro nayeb di Burya avevano iniziato un processo per annullare il titolo di proprietà sul khash land di Borodol, sul quale stavamo costruendo la scuola ed il community centre. Per buona fortuna, l’amministratore diocesano, P. Pio Mattevi, non senza pagare un po’ di ghush, da Khulna riuscì a bloccare un po’ la cosa.
3. – L’IMPATTO PASTORALE
P. Piero aveva avuto una intuizione su un problema di fondo della nostra gente, sul quale ancora adesso non si ha ancora una visione comune o per lo meno un’azione pastorale comune. Egli in sostanza sosteneva che quelli che da Muci erano diventati Cristiani, dovevano abbandonare in blocco le attività proprie dei Muci e cioè:
– avvelenare,
– scuoiare,
– mangiare carogne (in bengalese: mora manksho).
Queste tre attività, infatti, sono strettamente collegate fra di loro: chi mangia carogne, anche se direttamente non avvelena, collabora indirettamente con chi avvelena e scuoia, comprandone la carne al prezzo di una o due taka per sher (poco meno di un Kg.).
Ricordo che in uno dei meeting generali con la gente, lui saltò fuori con l’idea del sign board: “Quale sign board vogliamo porre all’entrata della nostra para, Christian para o Muci para?” E disse che si aspettava una risposta precisa dalla gente su questa domanda. Qualche mese dopo io partii per l’Italia e P. Piero continuò in questa policy dell’out-out. Quelli che volevano restare nell’ovile, dovevano rinunciare alle tre attività dei Muci.
Così vennero comminate delle sanzioni contro chi continuava imperterrito il suo lavoro:
– esclusione dall’attività del madur e del centro del cucito;
– esclusione anche dalla sepoltura al cimitero.
In tutto 18 famiglie rimasero tagliate fuori. Queste famiglie, segregate dalla Missione, si diedero da fare per cercare qualche altro protettore, che chiudesse un occhio sul loro peccato sociale. Si rivolsero così alla New Apostolic Church, che fece il suo ingresso ufficiale a Borodol una diecina di giorni prima che io rientrassi dall’Italia. Al mio ritorno l’Ojit, il maestro morto qualche mese fa per avvelenamento, si aspettava di essere reintegrato nel suo chakri (lavoro) di catechista, da cui era stato allontanato l’anno prima per le sue malefatte. Al mio rifiuto, passò anche lui tra le file dei fratelli separati, divenendone il leader. Come finì questa vicenda dei Protestanti a Borodol? In occasione del 3° anniversario della morte di P. Serafino, otto famiglie ritornarono, tra cui anche l’Ojit, che venne assunto dal vescovo come maestro nella scuola. Le altre famiglie rimasero tagliate fuori, ma non conservarono nessun legame con la New Apostolic Church. Così essi adesso sono semplicemente Muci, anche se la maggior parte di loro è stata battezzata.

4. – ALCUNE RIFLESSIONI SU QUESTA STRATEGIA
Questo modo di intervenire penso possa essere letto nella sua giusta luce a distanza di anni. Ad ogni modo, sull’argomento, si sa, ci sono due posizioni e atteggiamenti diversi. Ovviamente tutti sono d’accordo che i nostri devono abbandonare le opere dei Muci, se vogliono essere considerati cristiani. L’avvelenare, lo scuoiare e il mangiare carogne rappresentano il loro Egitto o la terra che Abramo deve abbandonare se vuole vedere realizzata la promessa. Il problema è sui modi e sui tempi. Alcuni dicono che bisogna prima preparare il terreno e offrire loro alternative concrete di lavoro per poter chiedere loro efficacemente di lasciare la condotta dei padri. Altri invece sostengono che l’abbandono di tali opere sia la condizione indispensabile e la premessa ineliminabile per poter lavorare con loro. Nel contrasto delle due posizioni una cosa comunque è certa: i passi che fanno per il superamento di questa ancestrale assuefazione devono essere fatti da loro attraverso un processo di coscientizzazione; se vengono imposti da noi, sul momento potremmo avere l’impressione del successo, ma poi le cose continueranno ad andare come prima, perché noi non possiamo svolgere eternamente il ruolo di poliziotti in mezzo a loro.

5. – LEADERSHIP
Nel mio primo periodo di presenza a Borodol, dopo l’impressione negativa che io avevo ricevuto dei matubbor (capi-villaggio), li avevo sistematicamente isolati e messi da parte. Avevo portato avanti le varie attività intraprese servendomi della collaborazione di un gruppetto di uomini, che allora faceva parte della S. Vincenzo. Successivamente però mi resi conto che se si voleva veramente coinvolgere il somaj (la comunità) nelle varie iniziative e, soprattutto, se si voleva ottenere una risposta ad una certa impostazione pastorale, era indispensabile agire con e tramite i matubbor, che altrimenti avrebbero continuato ad ostacolare e mettere il classico bastone tra le ruote. Il periodo trascorso con P. Piero si è svolto perciò in questo tentativo di riavvicinamento dei matubbor e del loro coinvolgimento responsabile nelle vicende del somaj. Si è passati così attraverso vari tentativi di riorganizzazione del somaj: da un iniziale Comitato dei Dieci ad un Parish Council, sorto all’epoca della frattura della comunità. Quando è avvenuta la riappacificazione, è sorto un altro comitato, il Comitato dei Sedici, che è durato fino al gennaio di quest’anno. Ci sono stati 7 o 8 mesi senza nessun riferimento di leadership. Finalmente, dopo ripetuti tentativi, con P. Osvaldo Torresani, siamo riusciti a mettere in piedi l’ultimo comitato, il Comitato degli Undici, in cui figurano, per la prima volta, anche due donne.

6. – TENTATIVI FATTI PER APPROFONDIRE LA CONOSCENZA DELLA NOSTRA GENTE
Cercare di penetrare quello che si nasconde dietro la facciata della nostra gente, di cui si conosce la estrazione, è stata una preoccupazione che mi ha accompagnato fin dall’inizio. Questa è la ragione per cui mi diedi da fare per apprendere il loro gergo, una sorta di lingua che loro usano quando vogliono tagliare fuori dai loro discorsi gli estranei. E’ la cosiddetta Thar Bhasha, una specie di lingua franca dei Muci. Essi adoperano anche un’altra espressione: amader Ingreji (il nostro inglese). Studi isolati su riviste e qualche buon libro mi avevano aperto la mente su alcuni aspetti fondamentali che bisogna assolutamente tenere presenti quando si scende a lavorare con questa gente.
Primi tentativi di uno studio sistematico erano stati fatti ai tempi in cui P. Luigi era parroco di Satkhira. Nei meeting congiunti dei catechisti di Satkhira-Borodol c’eravamo proposti una conoscenza approfondita della nostra gente e chiedevamo ai catechisti che fossero loro a parlare di se stessi e della propria gente. Purtroppo detti meeting si limitarono a due o tre e poi non continuarono più. L’ultimo tentativo fatto in questa direzione fu l’idea di un Seminar dei Muci-Cristiani al Training Centre di Jessore con la partecipazione dei rappresentanti dei villaggi di Satkhira e Borodol. Con questo seminar ci si proponeva una conoscenza allargata dei problemi reali della nostra gente, che doveva rappresentare un po’ la piattaforma da cui partire per una comune strategia di azione. A quell’epoca i promotori dell’iniziativa erano stati P. John Fagan e P. Piero Colombara. Poi si sa che l’esperimento fallì sul nascere perché i Cristiani di Satkhira si erano sentiti offesi dal titolo che richiamava il loro passato e avevano boicottato l’incontro, facendo intervenire addirittura il vescovo. Da allora più nessun tentativo è stato fatto in questa direzione, ma è auspicabile che iniziative di questo genere vengano riprese e approdino a qualcosa di più concreto.

6. – QUALCHE RIFLESSIONE SUL PERIODO TRASCORSO CON P. PIERO
P. Piero era un vulcano di iniziative e, per la ricchezza di esperienza accumulata nei suoi anni di Bangladesh, per me è stato un utile termine di confronto ed ha contribuito molto ad allargare i miei orizzonti. Devo comunque dire che nella presenza di P. Piero a Borodol c’è stata una parabola ed anche una metamorfosi. Mentre ero in Italia, in una delle sue lettere mi diceva che io avevo sacramentalizzato tutto. A me non era sembrato di essermi mosso in quella direzione. Ad ogni modo accusai un po’ il colpo. L’anno scorso, quando volle presentare una specie di esercizio per un Master Pastoral Plan, partendo dalla situazione di Borodol, per me fu una piacevole sorpresa constatare come lui desse un posto centrale all’esperienza religiosa, definendo il Cristo “il turning point” di ogni azione pastorale. Per me era oltremodo significativa questa constatazione: il recupero cioè in P. Piero della dimensione religiosa, che prima invece non avevo notato presente nella sua azione.
Un altro elemento voglio aggiungere a conclusione di questa riflessione. Nel periodo trascorso da solo a Borodol, ero passato da una iniziativa all’altra, promovendo attività di vario tipo. Con l’arrivo di P. Piero questo aspetto creativo si venne attenuando in me fin quasi a scomparire del tutto. Anzi ad un certo punto si venne a creare in me la sensazione di aver sbagliato tutto ed era forse questa sensazione che mi tratteneva dal promuovere altre iniziative.
Ci sono tanti altri aspetti passati in seconda linea o addirittura trascurati in questa relazione, come, per esempio l’aspetto educativo-religioso, ma in questo campo non pensiamo di fare qualcosa di nuovo o di diverso da quanto si fa altrove.

III. PERIODO CON P. OSVALDO TORRESANI
P. Osvaldo è venuto a Borodol alla fine dello scorso gennaio, quando c’era ancora P. Piero. Il nostro cammino è appena incominciato e perciò non ho un gran che da dire. Penso comunque che il nostro cammino sarà improntato ad un profondo senso di amicizia, che ha alla sua base un rispetto reciproco ed una schiettezza e onestà di fondo. Cerchiamo di non avere segreti fra noi e soprattutto vogliamo dare un certo spazio alla preghiera comune, riconoscendo in essa la sorgente ispiratrice del nostro stare insieme e del nostro agire. Non abbiamo grandi mire pastorali e cerchiamo di muoverci con i piedi per terra, senza colpi di scena. Alla base di tutto questo c’è la coscienza dei nostri limiti e della difficoltà della gente, in mezzo alla quale ci troviamo ad agire. Non rivoluzione quindi, ma paziente attesa, un’attesa che ci sovrasta perché oltre di noi e si pone il più possibile nella prospettiva di Dio, i cui tempi sono diversi dai nostri.
Inoltre nella nostra azione pastorale cercheremo di muoverci con la gente, coinvolgendola il più possibile nel cammino che si vuol fare. L’esito di questo nostro cammino non è alla nostra portata e dipende in massima parte dal Signore, al quale chiediamo luce e forza.

Borodol, Settembre 1983.
P. Antonio Germano, S. X.

 

BORODOL, 02.04.1981 - Primo rientro in Italia

Carissimi,

Posso finalmente annunciarvi che ho ricevuto dal governo bengalese il permesso di rientrare in Bangladesh, quello che in inglese si chiama re-entry visa e percjò vi comunico che lascerò il Bangladesh verso il 22 o il 23 di aprile. Non ancora sono in grado di comunicarvi con precisione la data di arrivo a Roma, perché non ho ancora fatto il biglietto aereo. Viaggerò con il Bangladesh Biman, aereo di linea bengalese: volo diretto Dhaka-Roma con scalo a Dubai in Arabia Saudita.

Sono così giunto al termine del mio primo periodo di servizio alla Missione: sono contento e ne ringrazio il Signore. Il lavoro, iniziato da me, continuerà e questo è un segno che il Signore è tornato a benedire il suo popolo. P. Piero ha molta più esperienza di me e sono sicuro che nelle sue mani tutto procederà per il meglio. Volendo sarei potuto venire a celebrare la Pasqua da voi, ma ho voluto coronare con la celebrazione della Risurrezione di Gesù questa prima fase. Vi faccio gli auguri più sinceri e vi prego di ricordare al Signore me e la mia gente. Chiudo così e a risentirci a voce. Vi abbraccio tutti caramente. Vostro Antonio.

 

KHULNA, 24.10.1981 - Il ritorno

Carissimi,

Eccomi di nuovo in patria! Il viaggio è andato bene e già nell’aereo sembrava di essere in Bangladesh, poiché la maggior parte dei passeggeri, che provenivano da Londra, erano bengalesi. E’ stata anche la notte più breve  della mia vita. Partiti da Roma all’imbrunire, dopo 5 o 6 ore dal decollo, siamo andati incontro all’alba.

Le cose da dirvi non sono molte, perché ci siamo appena lasciati. La prima notizia che ho captato appena sceso dall’aereo è che il prezzo del riso è salito a 7 taka allo sher (sher: poco meno di un kg.) e ciò significa che le cose non vanno bene. E’ in atto la campagna elettorale per l’elezione del presidente della repubblica, che dovrebbe svolgersi a metà novembre. Speriamo e preghiamo che non ci siano complicazioni.

Queste righe sono soprattutto per espimervi tutta la mia gratitudine ed il mio affetto per il modo con cui mi avete accolto e tenuto in mezzo a voi: il Signore certo vi benedirà e vi proteggerà.

Mi fermerò ancora qualche giorno a Khulna e poi farò ritorno a Borodol, dove la mia gente ed il lavoro mi aspettano. L’entusiasmo è ancora quello di prima: prego solo che il Signore rimanga con me. Termino qui sperando di ricevere presto notizie da voi. Un abbarccio. Antonio.

 

BORODOL, 22.11.1981 - Il ritorno

Carissimi,

Ieri, di ritorno da Alomtola, dove ho trascorso un paio di giorni, ho trovato la vostra attesissima lettera. Oggi fa esattamente un mese da che sono ripartito ed in un mese sono già tanti gli avvenimenti e le cose da raccontare che non so da dove incominciare. Il giorno 27 ottobre ero già a Borodol a riprendere la mia attività. E’ difficile riportarvi nella lettera la gioia con cui la gente mi ha accolto: la banda, naturalmente, e poi collane di fiori a non finire. In mezzo a tanta gioia, però, una nota amara di tristezza. Il giorno stesso infatti ho appreso che 18 famiglie, proprio una diecina di giorni prima del mio arrivo, sono passate ad una setta protestante.

La nostra comunità per altro non ha perso nulla con loro, perché sono tutti avvelenatori, scoiatori e mangiatori di carogne. P. Piero li aveva messo un po’ con le spalle al muro, in quanto aveva detto in maniera più forte quello che da sempre era stato loro ripetuto: se volete rimanere nella comunità cristiana, dovete smettere di avvelenare il bestiame con tutto quello che esso comporta (ricordate la piaga sociale dei Muci?). Per tutta risposta essi si sono rivolti ad una setta protestante, la quale, senza interpellarci, li ha accolti a braccia aperte. Proprio ieri, mentre tornavo dal villaggio di Alomtola, essi accoglievano in trionfo un missionario protestante americano, il quale, naturalmente, non conosce la lingua bengalese ed è venuto direttamente da Dhaka col suo battello privato, accompagnato da una scorta di seguaci bengalesi. Ha distribuito un po’ di taka e penso proprio che questa sia stata la ragione che  ha fatti cambiare bandiera ai nostri Muci: la speranza di ottenere qualcosa senza la scocciatura di essere importunati da chi li invita a cambiare vita. Anche un mio catechista, Ojit Achari, che l’anno scorso avevo dismesso per cattivo comportamento nei confronti della gente, si è unito  a questa nuova mondoli ( mondoli è il corrispettivo italiano di chiesa: chiesa cattolica, chiesa protestante, ecc.).

Il fatto che abbiano cambiato bandiera dispiace sì ma fino ad un certo punto. Il brutto è che in seno alla comunità entra un altro elemento di divisione e la divisione tra i poveri è una gran brutta roba! Sono praticamente 15 giorni che sono da solo alla missione, perché P. Piero si è preso un po’ di vacanze: nel periodo in cui è rimasto a Borodol ha perso ben 10 kg.! Il 15 novembre, come forse avete appreso per televisione, ci sono state le elezioni presidenziali qui in Bangladesh. Si è fatto di tutto per fare apparire che le elezioni si sono svolte democraticamente. In realtà è stata una gran buffonata. Il partito al governo, BNP, partito nazionalista bengalese, ha proceduto con minacce e intimidazioni. A tanti, soprattutto Hindu, è stato impedito di votare, perché si sapeva che non avrebbero votato per il BNP. Un’ora dopo la chiusura dei seggi, la radio ha incominciato a pubblicare i risultati, che erano chiaramente falsi e preparati in anticipo. Naturalmente il fuoco cova sotto la cenere. Ci sono scontri tra parti avverse, di cui non si ha notizia e si sa già che molti capi del partito avverso (Awami League) sono finiti in carcere. Speriamo che le cose non trovino un epilogo tragico in questo paese, su cui incombe sempre lo spettro della fame. Non voglio dirvi troppo in una sola volta e perciò mi fermo qui. Mi siete sempre tutti presenti e i giorni trascorsi con voi sono un carissimo ricordo. Mi affido come al solito alle vostre preghiere e vi abbraccio tutti. Vostro Antonio.

 

BORODOL, 30.12.1981 - Natale 1981

Carissimi,

La vostra lettera mi è giunta proprio alcuni giorni prima di Natale e perciò mi ha portato freschi i vostri auguri. Spero che anche voi abbiate trascorso un Natale pieno di santa gioia. Vi auguro un anno nuovo ricco di ogni bene. Gli avvenimenti ed il ritmo di lavoro qui non hanno tregua. Non so se sia arrivata qualche notizia anche da voi, ma, verso la metà di dicembre, si è abbattuto sul sud del Bangladesh un violento ciclone, causando danni ingenti, anche perché era in atto il raccolto del riso. Erano due o tre giorni che le condizioni atmosferiche minacciavano, ma nella notte tra il 9 e il 10 dicembre, in coincidenza con la luna piena, quando la marea si alza più del solito, la furia del vento, innalzando ancora di più l’onda, ha portato molti fiumi a straripare. Il Kopotokko a nord di Borodol è venuto fuori dall’argine ed ha invaso un territorio immenso. Moltissime case sono state danneggiate. Sapete che il basamento delle case (meglio chiamarle capanne!) è di terra battuta; ora se il basamento rimane qualche giorno nell’acqua diventa una poltiglia e quindi tutto si affloscia e crolla al suolo.

Una buona metà del riso era ancora nei campi e quindi è andato perduto. Lo stesso disastro si è verificato a sud di Borodol, soprattutto a Goroikhali, che si trova sulla riva di un fiume, lo Shipsa, ancora più grande e burrascoso del Kopotokko. Con P. Piero abbiamo apprestato un piano di emergenza. In particolare abbiamo messo a punto un progetto per la ricostruzione di 70 casette a sud di Borodol e questo a favore di Cristiani, Hindu e Musulmani. Abbiamo sottoposto il progetto alla Caritas del Bangladesh e speriamo di averne l’approvazione in poco tempo.

Quest’anno io ho trascorso il Natale fuori stazione; sono andato nei due villaggi più lontani: Alomtola e Goroikhali. Ad Alomtola si sono verificati episodi di intolleranza da parte dei Musulmani. In questo villaggio i nostri Cristiani sono una piccola minoranza: una quarantina di famiglie in tutto. Su di loro si sono riversati da sempre i soprusi di tutti, non tanto perché sono Cristiani, ma per il fatto che per loro continuano ad essere Muci. La mentalità che emerge è sempre quella: sono Muci e tali devono rimanere, non c’è alternativa per loro! Il fatto che adesso  hanno cominciato a sollevarsi un poco dalla loro situazione non viene digerito e perciò quest’anno, in occasione del Natale, la loro rabbia è esplosa ancora più feroce. Intanto hanno impedito ai nostri qualsiasi manifestazione religiosa esterna e la notte di Natale, mentre io ero a Goroikhali, alcuni scalmanati sono entrati nella para cristiana seminando terrore, distruggendo il presepe preparato all’aperto e saccheggiando case e quanto incotravano sul loro passaggio. Gli episodi si sono verificati per più notti di seguito. Abbiamo riferito i fatti alle autorità competenti e speriamo che questi fenomeni di terrorismo, di sopruso e di intolleranza religiosa non abbiano più a ripetersi. Come vedete, le novità da noi non mancano. Le cose da dire sono ancora tante, ma ci risentiamo ancora. Termino qui, facendo a voi tutti gli auguri più sinceri per questo nuovo anno. Ho tanta fiducia nella vostra preghiera. Un caro saluto da parte di P. Piero ed un abbraccio da parte mia. Vostro Antonio.

 

BORODOL, 05.03.1982 - 25 Aprile

Carissimi,

Questa volta con un po’ di ritardo rispondo alle vostre due lettere. Sono appena rientrato dalla visita a Goroikhali, che si trova a 6 ore di barca da Borodol. Lì era scoppiato, non si sa come, un incendio e 7 capanne sono andate completamente distrutte: sono rimaste le mura di fango annerite. La situazione economica in questo villaggio è veramente disastrosa e finora non sono riuscito a realizzare nessun piano. Da 4 anni sto cercando di comprare un pezzo di terra, dove sistemare le loro casette e dove possano trovare posto la scuoletta e la piccola chiesa. Ma, quando sto per concludere l’affare, ecco che sorge la difficoltà che blocca tutto. La ragione principale è che i grossi papaveri della zona non vogliono che i poveri Muci trovino una condizione più umana di vita.

A Goroikhali vivono 45 famiglie tutte a ridosso del bazar in un fazzoletto di terra. Le loro capanne assomigliano più a tane di bestie che ad abitazioni umane. Manca assolutamente lo spazio vitale con una promiscuità incredibile e, se non si risolve la situazione logistica, non si può iniziare nessun piano di sviluppo. Questa volta, andato per dare il primo soccorso a quelli colpiti dall’incendio, mi sono recato di nuovo da uno di questi ricchi possidenti (mohajon). Il prezzo che vuole è esorbitante: il doppio di quello che chiederebbe se fossero altri a comprare. Questa volta, però, sono deciso ad andare in fondo. Il piano che ho in mente è quello di compare la terra, sistemarvi le casette dei Muci e costruire la chiesetta e la scuola. Il tutto mi verrebbe a costare intorno ai 10 milioni di lire. Ho già cominciato a muovere le acque e spero che anche questa volta la Provvidenza non rimarrà inerte. Ma non pensate che tutto finisca con Goroikhali, ci sono altri villaggi che si trovano nella medesima melma e aspettano una sistemazione. Non trovo altro da dirvi per il momento. Con P. Piero andiamo ottimamente e anche lui vi manda i più cordiali saluti. Ricordatemi al Signore: la sua forza mi è più che mai necessaria. Con affetto. Vostro Antonio.

P.S.: Accludo nella lettera un articolo su Borodol scritto da P. Silvano Garello, mio compagno di ordinazione, che tornava a Borodol 10 anni dopo!

 

COLLOQUI SOTTO LE STELLE - di p. SILVANO GARELLO

Un mucchio di terra ed uno stecco di bambù: il molo di Borodol. Mi guardo attorno perplesso. Ad incoraggiarmi a scendere ecco il saluto di un cristiano: “Gisur pronam! (Sia lodato Gesù Cristo!). Father, ki khobor? (Padre, che notizie ci sono?). La gente di Borodol aspetta il battello che viene da Khulna per avere il giornale del giorno prima, la posta e qualche piccola novità per il mercato. In linea d’aria Khulna dista poco più di cinquanta miglia, ma con il battello occorrono almeno sette ore. Finita l’animazione del mercato, che cade di domenica, a Borodol si sente forte l’isolamento.

Prima di incontrare P. Antonio Germano e P. Piero Colombara, lungo il tragitto, ho avuto tutto il tempo per lustrare le immagini di dieci anni fa. “Vieni a vedere: Borodol non è più quello di prima”, mi aveva detto P. Antonio. E come poteva esserlo? I cristiani di Borodol avevano visto tornare P. Serafino Dalla Vecchia, sfigurato dal cancro ma con ancora sulle labbra il suo imbattibile sorriso. Essi avevano chiesto un miracolo per lui. Egli invece da molto prima aveva chiesto un miracolo per loro, e ne stava pagando il prezzo con la vita.

I suoi “muci” avevano la pelle dura come quella delle mucche che scuoiavano dopo averle avvelenate. Questo era il loro espediente per vivere, ma anche il marchio d’infamia incollato al loro nome. P. Antonio, il successore di P. Serafino,  aveva avuto il cuore troppo tenero per prendere di punta la situazione. Egli credeva nell’autoredenzione attraverso il lavoro e l’educazione. Dove il mestiere era un fatto di casta valeva poco dire: “Davanti avete il fiume: pescate. Alle vostre spalle avete i campi: fate i contadini”. La resa avvenne su una via di mezzo: l’artigianato, ossia il lavoro di ricamo della juta per le donne e la fabbricazione delle stuoie per gli uomini. Il mercato estero ed interno sembrò rispondere bene. Come risultato, qualcuno effettivamente abbandonò il vecchio mestiere di scuoiatore. Attraverso uno sbarramento lungo il fiume si guadagnò una bella striscia di terra che permise la ristrutturazione delle capanne su un nuovo tracciato lungo la strada. P. Antonio, da buon abruzzese (osservazione dell’interessato: in realtà sono molisano!), non si era lasciato piegare dalle difficoltà e dagli insuccessi. Per alcuni anni aveva tirato avanti da solo.

A Borodol si respira ora un’aria di laboriosità festosa. Al mio arrivo sono stato subito invitato a sedermi sul prato della missione davanti ad un piatto di riso preparato dai ragazzi che facevano il loro picnic. Più in là anche il gruppo delle donne stava degustando un buon torkari (in inglese: curry). “Da alcuni giorni il nostro cuoco è disoccupato. Non faccio altro che passare da un invito all’altro”, mi disse P. Antonio. Ci voleva poco a capire quanto P. Antonio stesse bene tra la gente e come non sia il tipo che teme di sprecare sorrisi e incoraggiamenti.

L’uomo dalla forza d’urto è fuori. Al ritorno dalla Messa vespertina a Buria, seduti sulla veranda, parliamo di lui guardando le stelle. P. Piero è partito in motocicletta per Alomtola per documentarsi su un gesto di intolleranza compiuto da alcuni giovani musulmani la sera di Natale. Costoro avevano saccheggiato le statue del Presepio. P. Piero non è l’uomo che abbassa la testa davanti al sopruso. Ben agguerrito in sociologia, egli sa, nel caso, arruolare in piena regola un piccolo “esercito della salvezza” a difesa della causa degli oppressi. Come quando volevano far passare una strada proprio nel mezzo del terreno riguadagnato dal fiume con mesi di sudore. Egli aveva fatto affiggere dei cartelli con la scritta: “Giù le mani dalla terra dei poveri!”.

Forzato dalla disperazione, P. Piero si è messo a fare anche un po’ il dottore. I morsi del serpente, il tifo, il colera, le dissenterie non permettono di perdere troppo tempo in pie considerazioni..

LA SFIDA CHE NON HA LASCIATO DORMIRE. Mentre P. Antonio era in Italia in vacanza, P. Piero aveva lanciato l’iniziativa delle latrine nel villaggio. Ci furono resistenze al limite del grottesco. “Non vogliamo tenerci la puzza e la sporcizia vicino a casa”, obiettarono alcuni. “Bene, allora tenetevela in casa, quando avrete paura di uscire di notte”. Quelli che accettarono la sua proposta ora passano per i più furbi. Un gabinetto vicino a casa  è così igienico e così comodo!

L’altra battaglia fu piuttosto una sfida drammatica. “Chi non smette di avvelenare le mucche e di mangiare carne di mucca trovata morta sarà ipso facto scomunicato dalla comunità cristiana e gli sarà rifiutata la sepoltura in terra benedetta”. Le parole erano precise. Ciò che non avevano fatto le esortazioni di P. Serafino e di P. Antonio, lo fece il terrore di finire sepolto come un cane. Ma anche in questo caso, alcune famiglie, forse sotto il peso di un’abitudine millenaria, non vollero desistere. Il verdetto fu inequivocabile: scomunica. Il provvedimento non era troppo sproporzionato? Non bisogna dimenticare che il senso di disgusto e di disprezzo suscitato nella società bengalese dal mestiere di un “muci” che si dedica a queste pratiche ingiuste e antiigieniche  è ben più che una scomunica sociale. Forse che il cristiano ha il privilegio di urtare la sensibilità sociale e di scavalcare i principi morali? La verità è che paghiamo ancora oggi un atteggiamento di arrendevole considerazione. La Chiesa dei primi secoli chiedeva al convertito tagli netti e sacrifici duri come prova di accoglienza della fede e del nuovo sistema di vita.

Le sei famiglie (Nota di p. Antonio: in realtà le famiglie furono 18) ribelli chiesero accoglienza presso la New Apostolic Church. I ministri di questa denominazione vennero da lontano, parlarono con l’aiuto di un interprete, battezzarono e lasciarono come capo un certo Michael, un nostro ex seminarista.

Seduto sui gradini della chiesa a guardare le stelle e ad ascoltare Michael: così ho trascorso la mia ultima sera a Borodol. Un misto di pietà e di speranza mi ha tenuto lì ad ascoltare, mentre i gradini si facevano sempre più freddi. Egli cominciò così: “Noi siamo cristiani da cinquant’anni…” “Non capisco come tu, un ex seminarista, sia arrivato al punto di abbandonare la Chiesa che ti ha allevato…” gli dissi. “Mio padre mi ha detto: o stai dalla mia parte o devi andartene. Poi ho anche pensato: per mangiare mi occorre pur un mestiere…”. Gli rievoco i tempi felici di P. Serafino, che lo sognava prete a Borodol, dedicato a riscattare i suoi fratelli muci dal marchio dell’immondezza e della degradazione. La voce di Michael ha un tremito: “Io vorrei tornare indietro, ma non so trovare la strada”.

A Borodol la notte si chiama ancora buio e silenzio. Conficcati nella palude, al di là del fiume Kopotokko, i piloni della luce elettrica sono pur sempre una bella promessa. Sento nell’anima una morsa lancinante: questa gente si è fatta cristiana, ma ha veramente passato il fiume? A volte viene da pensare che il loro cuore e le loro abitudini siano ancora al di là del Mar Rosso. Ma non è così. Qualcuno ha passato la sponda ed è in marcia. La luce sta per arrivare ad illuminare tutto il villaggio. Stanno per sorgere una nuova scuola ed un centro del cucito dedicati a P. Serafino. Ora la lampada del Santissimo è alimentata dall’olio offerto dalla gente. Alcuni giovani, artigiani del cuoio a Satkhira, si sono impegnati a pagare le spese di un seminarista povero originario di Borodol che studia a Khulna. Ci sono dunque dei segni di una nuova comunità cristiana. Chi sa quanti missionari, la sera, guardando le stelle del cielo di Borodol, si saranno chiesti: “Quando arriverà il momento della liberazione di questo popolo?” P. Serafino lo previde ed esultò di gioia. Alzandomi, dissi a Michael: “Ricordati che qui è sempre casa tua!” P.SILVANO GARELLO SX.

 

Goroikali_1982. una disastrata famiglia di Goroikali.

Goroikali_1982. una disastrata famiglia di Goroikali.

 

BORODOL, 06.04.1982 - Elezione del superiore_1

Carissimi,

Ho ricevuto la vostra lettera che mi ha portato un po’ della vostra vita. Penso che abbiate sentito qualcosa sul Bangladesh, in cui, una ventina di giorni fa, in seguito ad un colpo di stato, è stata instaurata la legge marziale. Non vi dico di più, perché c’è la probabilità che le lettere vengano censurate. Dalla Direzione Generale in Via Nullo in Roma è stato in mezzo a noi per alcuni giorni P. Meo Elia. Se andate da lui, potrete sentire qualcosa di più particolare.

Il padre è venuto in Bangladesh per assistere al nostro Capitolo Regionale, un evento che ricorre ogni tre anni, in cui noi eleggiamo il Superiore Regionale e tracciamo alcune linee programmatiche , che dovrebbero guidare il nostro lavoro nei successivi tre anni. Devo dirvi che l’ho scampata bella. Nei primi sondaggi i voti si erano orientati sopra di me. Ma, al mio secco rifiuto di accettare, le cose sono andate diversamente e così abbiamo eletto di nuovo P. Sebastiano Tedesco, che diventa superiore per la terza volta consecutiva. Non ho potuto però evitare di essere eletto vice superiore. Il che non mi preoccupa, perché mi consente di rimanere a Borodol.

Come ben sapete, nel primo periodo di permanenza, quasi tutto il mio tempo l’ho speso per Borodol, dove i problemi erano tanti e non mi permettevano di interessarmi in profondità agli altri villaggi. Adesso, con la venuta di P. Piero, la nostra attività è raddoppiata e così cerchiamo di realizzare anche negli altri villaggi quello che è stato fatto a Borodol. Ci siamo divisi i villaggi, dove portiamo avanti varie iniziative e progetti.

Il 24 aprile p.v. ricorre il 3° anniversario della morte di P. Serafino e vogliamo commemorarlo con una certa solennità, perché vogliamo che questa data diventi un fatto significativo per la nostra gente. Quelli che si sono allontanati facendosi protestanti stanno facendo marcia indietro. Penso che la memoria di P. Serafino farà il resto. Infatti si prevede che per quella data ci sarà un ritorno in blocco. Questa volta, però, se ritornano, dovranno impegnarsi solennemente a cambiare vita. Come vedete, qui non c’è mai da annoiarsi e le sorprese son sempre tante. Pregate che il Signore sia con noi con la sua grazia. Finisco qui. Spero di sentire presto da voi. I miei auguri di Pasqua non vi giungeranno in tempo. Cari saluti a tutti, parenti ed amici. Un abbraccio. Vostro Antonio.

 

BORODOL, 22.06.1982 - Elezione del superiore_2

Carissimi,

Torno a voi dopo un lungo silenzio. Nel frattempo, un po’ dappertutto nel mondo, sono capitati  tanti fatti, fatti di odio e di sangue per gli episodi di guerra che si sono verificati qua e là, ma anche fatti di gioia, che, per lo più rimangono nascosti e nessuno li mette in risalto. Domenica prossima, qui a Borodol, ci sarà un bel gruppo di ragazzi e ragazze, che riceveranno la prima Comunione. Certo non ci sarà sfarzo, non ci saranno regali, banchetti e molti di loro mangeranno sì e no il loro piatto di riso quel giorno. Veramente qui l’Eucarestia è un segno vivo di quel pane che tanti-tanti non ancora possono mangiare pienamente.

Proprio in questi giorni abbiamo cominciato i lavori per la costruzione della scuola e del Social Community Centre, un edificio dove dovrebbero confluire tutte le iniziative di lavoro. Sono due progetti che ci sono stati finanziati dalla Misereor tedesca per un ammontare di circa 30 mila dollari. I due edifici sorgeranno l’uno difronte all’altro sulla striscia di terra strappata al fiume. Per rendere stabili le fondamenta vi abbiamo collocato sotto una specie di zatterone, costituito da pali di legno (in bengalese: kuti), lunghi un metro e larghi 20 centimetri di diametro. Si tratta di mille pali saldamente legati fra di loro. Il legno è speciale  (in bengalese: sundori kath), resistente al tempo e non marcisce.

Il disegno dei due edifici è semplice e lineare e mi sono improvvisato ingegnere a basso costo. I muratori ( raj mistri) e i manovali (jugali) ci sono stati offerti da P. Attilio Boscato, responsabile della missione di Simulia. Se ricordate bene nel 1974 in questa missione venne assassinato P. Valeriano Cobbe. Anche i Cristiani di Simulia provengono dai Muci, convertiti alla fine del 1800. Il Padre aveva costituito delle cooperative agricole e stava realizzando una rete per l’irrigazione dei terreni. La cosa non andava a genio ai grossi proprietari (zemindar) della zona, che assoldarono un sicario, che assassinò P. Valeriano a colpi di fucile.

Mentre stanno andando avanti i lavori di costruzione a Borodol, c’è la preoccupazione per gli altri villaggi, dove sono in atto altre iniziative di lavoro. Per fortuna adesso siamo in due e perciò il peso delle responsabilità viene condiviso. Abbiamo cominciato a pensare anche alle suore, che, nel giro di un paio di anni, speriamo di portare a Borodol. Nel frattempo, però, bisogna trovare il terreno dove costruire la loro abitazione. Come vedete, il fervore del lavoro non diminuisce. Spero solo di trovare sempre nella giornata il tempo necessario per l’incontro con il Signore in profondità, perché, se viene a mancare la sua forza, tutto il resto non serve a nulla.

Siamo nel pieno della stagione delle piogge. La settimana scorsa, ritornando in moto da Khulna, dove avevo partecipato al nostro incontro mensile, me la son presa tutta, rimanendo anche impantanato nel fango. Vi faccio i migliori auguri per le prossime vacanze estive. Finisco, chiedendovi fervidamente di pregare per me. Saluti anche da P. Piero. Vi abbraccio tutti caramente. Vostro Antonio.

 

Borodol 1982. Il taglio per ricavare il legno per le porte.

Borodol 1982. Il taglio per ricavare il legno per le porte.

BORODOL, 04.09.1982 - Costruzioni

Carissimi,

Spero che abbiate trascorso una splendida estate. Vi scrivo qui da Khulna, dove ho trovato la lieta sorpresa dell’offerta di 250 mila lire da voi inviata. Vi ringazio di tutto cuore, ma vi prego di non imporvi sacrifici troppo grandi per me, anche se sono convinto che il poco che noi diamo viene ripagato oltre misura dal Signore. Qui a Khulna son venuto a procurare cemento per Borodol. Fero, cemento, mattoni bisogna comprarli qui a Khulna e trasportarli poi con grossi barconi, che impiegano un paio di giorni per arrivare a Borodol. Le costruzioni sono a buon punto e speriamo di inaugurare i due centri per Natale.

Per la copertura degli edifici non abbiamo fatto ricorso al cemento armato, perché, data la salsedine del posto, il ferro verrebbe intaccato e la coesione col cemento verrebbe meno nel giro di pochi anni. Abbiamo invece fatto ricorso a travi di legno, il legno di una palma che si chiama tal gach. Se il legno è stagionato e debitamente trattato, ha una duratura secolare. Ci son volute ben 60 piante di tal gach per la copertura dei due edifici. Non vi descrivo il traffico per procurarle e portarle a destinazione. Nel sud dove siamo noi tali piante non si trovano facilmente e bisogna portarle da lontano sempre via fiume. Una volta a destinazione, incomincia il lavoro per ricavarne le travi e qui occorre un esperto del mestiere, che si chiama kath mistri. Le travi ricavate dalla palma vengono poi incatramate perché non vengano intaccate dalle termiti (ui poka). Collocate sul tetto le travi sono saldamente legate da tramezze, chiamate sola, sempre dello stesso tipo di  legno. Nello spazio intermedio vengono collocate mattonelle di terra cotta, sulle quali viene steso lo shurki, un miscuglio di polvere di mattone e calce, su cui viene versata acqua ad intermittenza e opportunamente battuto attraverso un processo interessantissimo perché acquisti solidità e consistenza. Questo tipo di tetto, oltre alla convalidata resistenza nel tempo, protegge anche dal caldo tropicale.

In questi mesi di pioggia ho dovuto accantonare la moto e riprendere la via lenta dei fiumi, che, come ormai sapete, riserva sempre delle sorprese. L’ultima volta da Khulna tornavo a Borodol in battello, ma, proprio a metà percorso, il battello va in panne e così, con mezzi vari di fortuna, sono rientrato a Khulna, perché per Borodol non era possibile proseguire con altri mezzi. Per andare a Borodol il battello impiega non meno di 7/8 ore. Così stasera prenderò il battello alle 9 e mezzo e spero di arrivare a Borodol verso le 6 di domattina. Andrà avanti così fino a tutto ottobre, poi si potrà riprendere in mano la moto. Si avvicina la stagione buona per gli ortaggi: se potete procurarmi un po’ di semi, ve ne sarò molto grato. A tutti voi ancora una volta il mio grazie sincero con la preghiera che il Signore vi benedica e vi protegga. P. Piero ricambia i vostri saluti. Da me un grande abbraccio. Antonio.

 

Borodol 1982. si preparano le travi per la copertura del tetto

Borodol 1982. si preparano le travi per la copertura del tetto

KHULNA, 16.10.1982 - Morso del serpente

Carissimi,

Mi trovo qui a Khulna dove son venuto per l’incontro mensile con i confratelli. Non torno subito a Borodol, perché tutti mi hanno consigliato di prendermi un po’ di vacanze. E’ passato un anno infatti dal mio rientro in Bangladesh e così mi sono lasciato convincere di stare una ventina di giorni lontano dal campo di lavoro. Con i pp. Livio Salvetti e Giovanni Abbiati andrò un po’ di giorni in Nepal a respirare una boccata d’aria fresca. C’ero già stato in Nepal nel 1979. In seguito al colpo di sole il superiore, P. Sebastiano Tedesco, sempre molto attento alla salute dei suoi padri, mi aveva spinta ad andare in Nepal. Ero stato ospite dei padri Gesuiti a Kathmandu. I Gesuiti sono presenti nel Nepal dal 1950. Furono ufficialmente invitati dal re ad aprire un College nella capitale. Il College è intitolato a S. Francesco Saverio, St. Francis Xavier College. Sapete che il Nepal è la terra del Buddismo e dell’Induismo ed è vietato alle altre religioni di mettervi piede. Quindi l’invito rivolto ai Gesuiti è stata un po’ una deroga a questa proibizione. Al mio ritorno spero di parlarvi a lungo di questa affascinante terra posta sulla catena dell’Himalaya, ricca di mondir ( templi) Hindu e stupa Buddisti.

Nel frattempo non so se a Borodol sia arrivata qualche vostra lettera. Eventualmente prendete questa come risposta. La settimana scorsa, a Borodol, ho provato l’ultima emozione, che si aggiunge alle tante altre del passato: il morso del serpente. Ve la racconto così come mi è capitata. Dpo le nove di sera, lascio i miei tre collaboratori (Andrio, Sudhir e Mothi) seduti in veranda e faccio il solito giro nella para. Al ritorno, sul punto di inforcare il sentiero che porta dentro la missione, sento qualcosa di fresco sul collo del piede ed ho l’impressione che si tratti di una rana infiltratasi su per i pantaloni. Torno a sedermi in veranda, dove avevo lasciato i miei tre amici. Ponendo le gambe a cavalcioni, sul collo del piede destro vedo spuntare una macchietta di sangue e contemporaneamente avverto l’inizio di un pizzicore. Comincio a prendere coscienza che non si è trattato affatto di una rana, perché subito dopo scopro chiaramente i due puntini tipici del morso del serpente.

Faccio notare la cosa ai tre, i quali, dopo un attimo di smarrimento, si muovono attorno confusamente, dando l’allarme in para. Intanto Sudhir viene fuori con una corda e mi lega la gamba sotto il ginocchio. Nel frattempo tutta la gente si è precipitata alla missione in gran confusione. Intorno a me c’è tutto un muoversi convulso. Vengono apprestati tutti gli attrezzi e incominciano le prove per scoprire se si tratta di serpente velenoso o no. Prova del capello: passando con un capello teso sui due puntini, il capello dovrebbe spezzarsi se il serpente è velenoso. Nel mio caso il capello non si spezza. Prova della corteggia d’albero: fanno passare una corteccia d’albero sulla ferita e mi chiedono se il passaggio della corteccia provoca fresco o caldo. Dico che ho una sensazione di fresco. Seconda prova negativa. Prova del pulcino: erano già pronti accanto a me due o tre pulcini, portati appositamente. Bevendo il sangue della ferita, il pulcino morirebbe all’istante se il serpente è velenoso. Il pulcino invece non muore. Ultima prova, quella del timo: mi fanno masticare alcune foglie di timo e mi chiedono se il gusto è dolce o amaro. Il sapore è amaro e perciò il serpente non è velenoso.

Si fa posto anche a Suren Mondol, il kobiraj (mezzo stregone) della para, il quale si appresta a preparare i suoi impiastri. “Suren, gli dico, niente trucchi e soprattutto niente montro (formule magiche)!” Si era cercata nel frattempo nella camera di P. Piero, assente da Borodol, la prodigiosa pietra nera (una pietra africana, che assorbe il veleno del serpente e impedisce perciò di nuocere), ma nessuna traccia della pietra. Il Kanai Gain aveva provveduto a fasciarmi la gamba anche al di sopra del ginocchio con la sua gamcha (una specie di asciugamani di cotone che ogni bengalese si porta quasi sempre dietro). In quella situazione mi dico: anche se non c’è il veleno, in questa maniera la mia gamba andrà comunque alla malora. Ad ogni modo, dopo le prove effettuate, sembrava chiaro che il serpente non era velenoso. Sono riuscito a conservare la calma durante tutto questo processo, sostenuto da una grande fiducia interiore. Ovviamente mi tornavano a mente le parole del Vangelo con l’assicurazione data da Gesù ai suoi discepoli contro il morso dei serpenti.

Intanto sono arrivate le dieci e prego la folla di allontanarsi perché il pericolo è scongiurato. Mi vogliono affidare qualche custode per la notte, ma faccio loro capire che mi basta la custodia del Signore. Così, un po’ alla volta, tutti sloggiano lasciandomi solo. Con un tantino di apprensione per i possibili effetti del morso vado a letto. Verso mezzanotte sento bussare alla porta. Mi alzo e vado a vedere di che si tratta. E’ una delegazione venuta a rendersi conto della mia condizione. Li riassicuro sul mio stato e così se ne vanno lasciandomi di nuovo solo. Devo confessare che fino alle due di notte non riuscii a prendere sonno per l’ansia del serpente. Ho così finito il racconto e mi rimane poco spazio per il resto. Saluti carissimi a parenti ed amici ed un caro abbraccio a voi. Vostro Antonio.

 

BORODOL, 04.12.1982 - Il Kirton

Carissimi,

Già da qualche giorno ho ricevuto la vostra cara lettera e ancora prima avevo ricevuto il pacchetto con le sementi, che ora sono già cresciute e, a vederle, rimarreste sorpresi. Grazie di tutto e il Signore vi benedica. Sono contento dell’entusiasmo con cui Lucia ha ripreso la sua attività di catechista: è senz’altro un arricchimento personale, perché quello che diciamo ai ragazzi ci implica a viverlo prima nella nostra vita e così anche la nostra lezione diventa più efficace. E poi, quello di annunciare la Buona Novella agli altri è un elemento essenziale della nostra vocazione cristiana.

Forse voi non lo credereste, ma a Borodol ci stiamo preparando ad accogliere un altro padre e così saremo in tre, almeno fino a quando P. Piero rimane in Bangladesh. Si tratta di P. Osvaldo Torresani, un cremonese, che sta per terminare il suo corso di lingua. Venendo qui da noi, avrebbe la possibilità di inserirsi gradualmente, capire l’ambiente e poi prendere pian piano le proprie responsabilità. Più fortunato di me quindi che mi son fatto il tirocinio a Borodol un po’ a mie spese. Ma non me ne pento e, se dovessi ricominciare, farei la stessa strada.

E’ cominciato l’Avvento e fervono i preparativi per la celebrazione del Natale. In particolare ogni sera ci sono le prove del kirton. Non ho ancora avuto modo di spendere due parole sul kirton. Il kirton è una tipica manifestazione culturale del mondo religioso Hindu. Riesce a coinvolgere in maniera straordinaria sia gli attori del kirton, che comprende suonatori di tamburi (dhak), harmonium e flauto (bashi), cantori con  la parte maschile e la parte femminile e danzatrici ( di solito ragazze prima della pubertà). Si svolge all’aperto e va avanti per ore, giorno e notte. Si esibisce sopra un palco improvvisato, fatto di stuoie. Attorno, in maniera circolare, da una parte  gli uomini, dall’altra le donne, siedono accovacciati gli spettatori, che partecipano emotivamente coinvolti nello spettacolo, in quello che viene cantato o proclamato. Attorno c’è un’atmosfera raccolta. Il soggetto è sempre un soggetto religioso. Nel mondo Hindu di solito è una esaltazione o celebrazione di una particolare divinità, Radha/Khrishna per esempio e ricorre infinitamente il nome Hori!

La Chiesa cattolica in Bangladesh, nel suo tentativo di inculturazione del messaggio evangelico ha fatto proprio questo elemento così coinvolgente della cultura religiosa Hindu e attraverso di esso celebra il mistero cristiano della salvezza nel suo percorso biblico: Nuovo e Antico testamento. Nella Diocesi di Khulna è stato soprattutto P. Marino Rigon a dare molta importanza a questo elemento culturale, dando vita a gruppi di kirton, chiamati kirton dol ( dol significa gruppo) nei vari villaggi della missione di Shelabunia e istituendo una tradizione a riguardo. In occasione del primo anniversario della morte di P. Serafino invitai uno di questi kirton dol. Visto l’entusiasmo che aveva suscitato in mezzo alla nostra gente, che, tra l’altro ha un background Hindu, feci richiesta a P. Marino di mandarmi uno dei suoi maestri a Borodol, perché potessi dar vita anch’io ad un kirton dol. P. Marino accolse la mia richiesta e mi mandò il migliore dei suoi maestri: Sri Suronjon Halder, che si fermò tre mesi a Borodol. Nacque così anche a Borodol un kirton dol, che in occasione di feste e ricorrenze viene invitato anche in altri villaggi. In seguito Goroikhali ed Alomtola, seguendo l’esempio di Borodol, diedero vita ad altri due kirton dol.

Perdonatemi questa lunga digressione, ma anche questa è una tessera del variopinto mosaico di Borodol. Altre cose pullunano e fanno pressione nella mente, ma mi fermo qui per non rendervi pesante la lettura. Vi auguro un Natale pieno di gioia e serenità. Un grande abbraccio. Antonio.

 

GRUPPO KIRTON 3

GRUPPO KIRTON 3

GRUPPO KIRTON 2

GRUPPO KIRTON 2

GRUPPO KIRTON 1. 1980

GRUPPO KIRTON 1. 1980

BORODOL, 06.03.1983 - p. Osvaldo

Carissimi,

Vi scrivo mentre sono in viaggio verso Khulna. In questo periodo abbiamo avuto una notevole caduta di pioggia fuori stagione, che ha reso impraticabili le nostre strade, perciò ho dovuto lasciare da parte la mia Honda, che non è più la Honda 50, bensì di una nuova Honda 100 fiammante, che il superiore ha messo a mia disposizione. La vecchia Honda 50 ha avuto il suo epilogo doloroso. Il suo telaio consiste di due lamiere saldate assieme, che per le strade normali tengono bene, ma per le nostre strade subiscono colpi fatali. Durante l’ultimo viaggio che ho fatto a Khulna, è successo che prima di arrivare a Satkhira il telaio si è aperto. In qualche modo sono riuscito ad arrivare a Satkhira. Il P. Gabriele Spiga, che, tra le altre belle qualità, è anche un bravo meccanico, ha ricucito il telaio col fil di ferro e così son potuto arrivare a Khulna, dove l’ho restituita al superiore che me l’aveva data. Oggi quindi mi sono affidato di nuovo al battello, come di solito accade nella stagione delle piogge. E’ Domenica: ho celebrato la S. Messa con la mia gente e verso le nove mi son diretto al molo per prendere il battello, che è partito soltanto con tre quarti d’ora di ritardo!
Con me c’è anche P. Osvaldo, che è venuto a prendere il posto di P. Piero, che in maggio rientrerà in Italia, dove si fermerà per almeno 5 anni. Domenica scorsa io ero fuori in un villaggio e perciò è toccato a P. Piero presentare il nuovo padre alla gente.Mi hanno raccontato che P. Piero, nell’introdurlo, abbia esordito in questo modo: “Voi sapete molto bene che io, modestia a parte, sono il boro doctor (boro in bengalese significa grande e qui riferito a doctor è come dire: io sono il primario!), ho il piacere di presentarvi il mio assistente, il kobiraj (=fattucchiere) P. Osvaldo Torresani!”. In realtà P. Piero ha acquistato una grande fama nella zona non soltanto come dottore, ma anche come veterinario. Ricordo che un giorno gli hanno portato una muccha mezzo moribonda. Lui cosa ha fatto? Ha versato una bottiglietta di mod ( il mod è un estratto alcolico di banane, di riso o di altro molto in voga, seppure di nascosto, in Bangladesh e, avvolte, una vera piaga sociale) in bocca alla mucca, che è vigorosamente risorta, completamente ristabilita in salute.
P. Osvaldo certamente non ha tutta l’esperienza di P. Piero, perché da poco più di un anno è arrivato in Bangladesh, ma penso che ci troveremo molto bene assieme. Lui, poi, prenderà il mio posto a Borodol, quando io avrò terminato il mio secondo turno. Mentre scrivo sono le due e trenta del pomeriggio e, se tutto va bene, dovremmo raggiungere Khulna verso le 5/6. Stiamo vivendo la Quaresima in un clima di vero impegno. Con le donne del cucito ( shelai center ) stiamo leggendo l’Esodo e lo troviamo quanto mai interessante, perché rispecchia molto bene la situazione di schiavitù che si vive qui un po’ a tutti i livelli, tutte le ingiustizie, tutti i faraoni… e l’ansia di uscirne, la viva speranza di liberazione.
Per il 24 aprile, che è anche l’anniversario di P. Searafino, abbiamo fissato la data di inaugurazione della scuola e del Social Community Centre. Per quella data penso e spero che tutti i lavori, compresa la fornitura di banchi, sedie, tavoli e armadi, saranno finiti. Per l’occasione verrà naturalmente anche il Vescovo e saranno presenti tanti ospiti. Indubbiamente, per la storia nostra qui, sarà una data memorabile. Il tempo cammina troppo velocemente e non si arriva a tutto: tanti programmi rimangono nella mente! Termino qui sperando di ricevere presto da voi. Auguri per la Pasqua imminente. Un abbraccio. Vostro Antonio.

 

Borodol 1983. P. Osvaldo, di spalle, controlla lo svolgersi del pic nic della scuola.

Borodol 1983. P. Osvaldo, di spalle, controlla lo svolgersi del pic nic della scuola.

BORODOL, 01.05.1983 - Inaugurazione

Carissimi,

Mi sembra un secolo ormai che non prendo più la penna per mandarvi due righe. Il mese di aprile è stato, come si dice, un mese pieno, senza tregua. E’ cominciato con la celebrazione della Pasqua. Subito dopo Pasqua, nella Diocesi di Khulna si celebra l’Assemblea Pastorale Annuale, con la partecipazione dei rappresentanti di tutte le missioni insieme al vescovo, padri, suore e catechisti. Sono tre o quattro giorni di lavoro intenso, preceduti da una adeguata preparazione a livello locale. Ogni missione deve dare relazione del lavoro svolto dall’ultima assemblea. Ogni anno viene svolto un tema particolare o affrontato qualche scottante problema. Si conclude sempre con una o due decisioni condivise, che serviranno da guida per l’attività pastorale/missionaria per tutto l’anno.

Subito dopo l’assemblea il vescovo è venuto a Borodol in visita pastorale e durante la visita c’è stata l’inaugurazione della scuola e del Social Community Centre. E’ stato un momento significativo nella storia della missione di Borodol e un momento di orgoglio per la nostra gente, abituata ad essere calpestata e disprezzata dagli altri, Hindu e Musulmani. La realizzazione di una scuola a Borodol era stato il sogno di tanti altri padri prima di me e il Signore ha permesso che diventasse realtà con la mia caparbia scelta di riaprire la missione di Borodol, rimanendoci in maniera stabile. Speriamo che tutto segni l’inizio di un nuovo cammino.

Il 24 aprile abbiamo celebrato il 4° anniversario della morte di P. Serafino. Fin dall’inizio ho voluto darci un particolare significato a questa data, ben sapendo quanto P. Serafino aveva fatto per Borodol e quanto profondamente era entrato nell’animo della gente. La celebrazione dura tre giorni, nei quali, oltre a ricordare P. Serafino e pregare per lui, ci sono altre manifestazione di carattere culturale e religioso; prima fra tutte l’esibizione dei 3 kirton dol, con premiazione al gruppo che fa meglio. Per l’occasione vengono i rappresentanti dei vari villaggi e in genere c’è sempre un buon numero di padri e suore: quest’anno eravamo in 12.

Il 17 aprile P. Piero Colombara ha lasciato il Bangladesh e si recherà in Gran Bretagna per prestare servizio in quella regione saveriana. Con me c’è, come vi dicevo, P. Osvaldo Trevisani, cremonese, fresco di Bangladesh, ma tanto bravo. Spero di scrivervi più a lungo prossimamente. Ricordatevi di me e della mia gente al Signore. Vi abbraccio tutti caramente. Vostro Antonio.

 

Borodol 1983. Centro del cucito visto dal fiume.

Borodol 1983. Centro del cucito visto dal fiume.

BORODOL, 06.10.1983 - Missionario?

Carissimi,

E’ da tanto tempo che che non mi faccio più sentire: dovete perdonarmi. Ho ricevuto la vostra ultima lettera: mi aspettavo che mi diceste qualcosa in più sulle vacanze a Duronia. In precedenza avevo ricevuto il pacchetto che mi avevate mandato tramite quella coppia di milanesi ed anche le 150 mila lire. Di tutto vi ringrazio. Purtroppo io non ho avuto modo di incontrare i due, perché Borodol è in capo al mondo, è un’isola fluviale e i pellegrini, che vengono in Bangladesh, al massimo, arrivano fino a Satkhira, ma mai fino a Borodol, salvo qualche rara eccezione.

Accludo qui anche per voi una copia della relazione su Borodol letta nella nostra assemblea dello scorso settembre. Il quadro che emerge da questa relazione non è certo completo, ma, come avrete modo di vedere, è una visione realistica, senza romanticherie o fantasie sulla vita del missionario: problemi concreti, tentativi di soluzione, fallimenti, ripresa senza mai perdere la speranza. Questi i quasi sei anni trascorsi a Borodol. A questa relazione aggiungete tutte le lettere ricevute da me din dall’inizio ed il quadro risulterà completo.

Certo rimane sempre qualche aspetto appena sfiorato e non trattato diffusamente. Sapete ormai già tutto sulle iniziative di lavoro. Parallelamente stiamo portando avanti anche una forte campagna di coscientizzazione. Nel gruppo dei nostri ci sono ancora alcuni ( una diecina di famiglie in tutto) che continuano il mestiere dei Muci: avvelenare, scuoiare e mangiare carne di carogne. Qualche mese fa dal terrazzo della nostra casa ho intravisto uno dei nostri che avanzava sull’argine del fiume portando sulla testa un sacco ben pesante. Non mi ci è voluto molto a indovinare cosa c’era dentro il sacco. Era la carne di una mucca appena scuoiata in riva al fiume che veniva portata in para per essere venduta ad una o due taka al chilo. Appeno l’ho intravisto, sono corso in camera a prendere la macchina fotografica, tra l’altro senza rollino, e mi son precipitato verso l’argine del fiume. Il portatore, ricordo bene anche il nome, Radha Mondol, appena mi ha visto, ha buttato il sacco nel Kopotokko ed è fuggito, coprendosi il volto per la vergogna.

Ho organizzato anche un gruppo di giovani con l’intento di sapere cosa succede in para e soprattutto per scovare la carne incriminata. Un giorno il gruppo dei giovani ha prelevato ben 17 hari ( pentole dove viene cucinata la carne) con il contenuto e li ha portati alla missione. Io ho colto l’occasione per andare al vicino posto di polizia che si trova ad Assassuni per avvisare l’health officer ( ufficiale sanitario), il quale è venuto con me. Ho fatto venire alla missione i responsabili della cucina incriminata (tutte mamme di famiglia, che devono cucinare quello che i loro mariti portano). L’ufficiale sanitario ha fatto loro una ramanzina e le ha minacciate dicendo che qualora avessero ripetuto il misfatto, avrebbe preso dei provvedimenti. Solo un tentativo? Si va avanti per tentativi.

A riguardo alle volte mi è toccato  svolgere un ruolo direi quasi poliziesco. C’è un villaggio vicino a Borodol chiamato Godaipur, sede di provetti avvelenatori. Un giorno sono capitati a Borodol 3 di loro. Quando mi è giunta all’orecchio la notizia, ho detto ai matubbor (capi villaggio) di invitarli a prendere un té in un’aula scolastica e poi chiuderli opportunamente dentro. Nel frattempo io sarei andato in thana (posto di polizia) per dare loro una lezione. Al mio rientro, son venuto a sapere che qualcuno aveva provveduto ad aprire la porta e a farli fuggire. Questa volta è bastata la paura. Ma ne sentirete ancora delle altre man mano che la nostra campagna va avanti.

Attualmente stiamo riparando la nostra casa, che era ridotta veramente male: nella stagione delle piogge ci pioveva dentro in tutti gli angoli e la notte bisognava alzarsi per evitare le colate di pioggia. Termino qui salutandovi caramente e unendo i saluti anche di P. Osvaldo. Pregate per me. Vi abbraccio tutti. Vostro Antonio.

 

BORODOL, 06.02.1984 - 1984!

Carissimi,

Dopo tanto tempo mi faccio vivo di nuovo e l’occasione, come al solito, è singolare. Sto andando in battello da Borodol a Khulna per partecipare al corso annuale di esercizi spirituali. Ho appena terminata la lettera per papà ed ora eccomi pronto per voi. Di tempo ne ho tanto, perché, come ormai ben sapete, ci vorranno 8/9 ore per raggiungere Khulna. Sul battello c’è anche la moto, che l’ultima volta, tornando da Khulna, mi si è rotta per strada. A Borodol, ovviamente, non ci sono meccanici, perché non ci sono moto: l’unica moto è quella della missione. La porto quindi a Khulna alla nostra Boyra Technical School e l’affido ai nostri bravi fratelli coadiutori Saveriani Sandro Tasca e Giovanni Gamba, che, tra l’altro, sono anche i fondatori della scuola.

Mentre vi scrivo, tanti occhi curiosi sono puntati sopra di me, ma ormai questa strana curiosità non mi disturba più di tanto e perciò vado avanti imperterrito. L’ultima volta vi accennavo al fatto che abbiamo deciso di riparare la casa della missione e in effetti avevamo iniziato i lavori. Senonché, procedendo con i lavori, ci siamo accorti che le mura si sgretolavano, perché i mattoni non erano tenuti assieme dal cemento, ma da una miscela di shurki (polvere di mattoni) e calce. Così abbiamo dovuto buttare a terra tutto. I costruttori saranno ancora  i muratori della scuola e del Social Community Centre. Prenderemo come modello la casa dei padri di Shimulia, in una dimensione ridotta rispetto a quella fatta costruire da P. Valeriano Cobbe. Nel frattempo P. Osvaldo si è già sistemato in una stanza del centro del cucito ed io ho trovato rifugio nella scuoletta, fatta costruire ancora ai tempi del Pakistan da P. Lucidio Ceci: camera da letto, camera da pranzo e ufficio ( una sola aula) e fuori una toilet provvisoria. Per il bagno, c’è il pukur a portata di mano. Di ritorno da Khulna inizieremo i lavori di fondazione.

Così, come vedete, da due anni ormai, mi trovo immerso in questi problemi di costruzione e penso che siamo solo agli inizi, perché poi bisognerà pensare alla sistemazione delle suore di Madre Teresa, per le quali è già pronto il terreno. Siamo in attesa che diano una risposta: se vengono e quando vengono. Il Vescovo sta trattando con Madre Teresa di Calcutta. E poi ci sono gli altri villaggi, che aspettano: scuola e chiesa. Non ve l’ho ancora detto, ma a Goroikhali siamo riusciti finalmente a comprare un bel pezzo di terra, dove sistemeremo le case della gente. E’ un apprezzamento di 10 bigha e cioè l’equivalente di un ettaro e mezzo. Si tratta di terreno basso (bil) e l’anno scorso vi abbiamo avuto la prima bella raccolta di riso. Ora bisogna rialzare il terreno di almeno mezzo metro, scavando due grandi pukur, uno per la gente ed uno per la missione. E’ il lavoro che ci attende quest’anno: rialzamento del terreno e costruzione di 40 casette per la gente. Lo stesso programma va realizzato per Alomtola, ma una cosa alla volta!

Quest’anno nella nostra scuola, a parte la novità dell’edificio, abbiamo due altre novità: una classe in più (la sesta. Nei prossimi anni arriveremo fino all’VIII) e alunni in più, in quanto abbiamo deciso di prendere per la prima volta anche Hindu e Musulmani nella nostra scuola. Questo implica lavoro e preoccupazioni in più, ma è anche una buona occasione per stabilire rapporti nuovi e diversi con i nostri amici Hindu e Musulmani. Siamo ancora lontani da Khulna, ma finisco qui e così finisce anche la curiosità di chi mi sta intorno. Spero di ricevere presto da voi. P. Osvaldo ricambia i vostri saluti. Vi abbraccio tutti caramente. Antonio.

PS. Arrivato a Khulna, ho trovato la sorpresa delle 100 mila lire. Vi ringrazio di cuore,

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