René Girard

Tra ‘Sacrificio’ e ‘Dono’: il pensiero di René Girard

René Girard, classe 1924, accademico di Francia dal 2005, è un autore prolisso che – a partire dal suo testo di critica letteraria del 1961, Menzogna romantica e verità romanzesca (trad. italiana Adelphi, 1965), passando per il libro di antropologia che lo rese celebre nel 1972, La violenza e il sacro (trad, italiana Adelphi, 1980), e poi da quello dall’intrigante titolo: Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, scritto nel 1978 e che può essere considerato come la summa del suo pensiero (trad. italiana Adelphi, 1983), fino all’ultimo Portando Clausewitz all’estremo, un commento ad un testo classico di cultura militare pubblicato nel 2007 (trad. italiana Adelphi, 2008) – è divenuto il caposcuola di quella ‘teoria generale della cultura’ che va sotto il nome di “teoria mimetica”. Per chi ha avuto modo di leggere, sia pure velocemente, l’opera di René Girard, alcuni punti fermi nella sua proposta antropologica sono cosa acquisita da tempo.

L’uomo è un essere che desidera ‘secondo l’altro’: tra l’uomo e il suo desiderio troviamo sempre un modello che indica l’oggetto del desiderio; un modello che ben presto diventa per ciò stesso un rivale. Questo meccanismo originario di psicologia sociale tende a scatenare una società intrinsecamente violenta (il bellum omnium contra omnes di hobbesiana memoria) facendo della risoluzione dei conflitti violenti il problema principe per l’avvio di ogni possibile cultura umana. La prassi sacrificale, così stranamente coestesa  a tutte le culture dei popoli, altro non è, secondo Girard, che lo stesso meccanismo risolutore dei conflitti violenti tramite un inconsapevole ed unanime doppio transfert: colpevolizzazione prima ed esaltazione poi di una vittima casuale che acquista così valore ‘sacro’. La mitologia allora, con la sua capacità fondativa del sacro e delle istituzioni culturali, altro non sarebbe che ‘ideologia’ dovuta ai fenomeni collettivi ed inconsapevoli delle folle violente in cerca di risoluzione dei propri conflitti interni ai danni di vittime innocenti. A questa ‘illusione’ mitologica, riflessa in tutta la produzione etnologica e classica, metterebbe fine, tramite una lenta evoluzione (le cui tracce è possibile trovare anche in altre diverse tradizioni culturali), il pensiero giudaico-cristiano, con la sua evidente e palese presa di posizione a favore delle vittime contro tutte le folle violente. Tra i “pilastri” del suo pensiero c’è dunque questa sua peculiare interpretazione della ‘prassi sacrificale’ – il ‘meccanismo vittimario dissumalato’ – e la sua lettura non sacrificale della Passione di Cristo, ‘svelamento’ o ‘rivelazione’ del fondamento violento di ogni cultura. Ora sembra che Girard, in alcuni ultimi scritti, dopo un lungo e pluridecennale ‘ostracismo’, utilizzi il termine “sacrificio” riferito anche alla morte di Gesù.

Ma veniamo alla classica tesi girardiana della lettura non sacrificale della morte di Cristo, che oggi “sembrerebbe” essere messa in discussione dallo stesso Girard. Girard dice che nella vicenda finale di Cristo si rivela “compiutamente” e senza residui l’innocenza della vittima. Il che significa che la ‘decrittazione’ cristica della struttura violenta della cultura umana è solo l’anello finale di una lunga storia che coincide con tutto il percorso antico-testamentario. Se ripensiamo alle straordinarie pagine isaiane dei Canti del Servo, ci rendiamo conto di come in esse questa ‘epifania’ della struttura violenta della cultura umana è già quasi del tutto svelata. La demistificazione del meccanismo vittimario giunge al culmine di un lungo cammino storico e letterario: è infatti nella ‘letteratura biblica’ che si accumula via via l’esperienza delle minoranze perseguitate. Lungo la storia del popolo ebraico (storia sacrificale esattamente come quella di tutti gli altri popoli), piccoli gruppi dissidenti, prendono sempre più coscienza della natura violenta della cultura sacrificale, in quanto ne fanno concreta esperienza sulla propria pelle; cultura sacrificale dalla quale, nel nome della fede in Yhwh, progressivamente si distaccano, e diventano sempre più in grado di raccontare questo distacco. Da qui la cruda violenza ‘manifesta’ di così tante pagine della Bibbia rispetto ad altri testi sacri, apparentemente più armonici, perché più mitologici e sacrificali. La morte di Cristo dunque come l’estrema e definitiva resistenza della ‘verità’ dell’innocenza di tutte le vittime della storia e della rivelazione della ‘menzogna’ mitologica che colpevolizza, sacrifica e sacralizza le sue vittime in funzione ideologica. I racconti della morte di Gesù di Nazareth come ‘scienza’ che svela il “sacrificio” in quanto strumento ideologico della folla dominante sulle minoranze perseguitate ed escluse. Da questo punto di vista, l’interpretazione in termini sacrificali della morte di Cristo sarebbe stata la più colossale mistificazione della storia, la rivincita del pensiero mitologico.

Allora, l’ultimo Girard che riutilizza il termine ‘sacrificio’ per l’evento di Cristo, è forse frutto di una revisione critica della sua teoria, una sorta di retromarcia sacrale? In realtà Girard non arretra di un solo millimetro dalle sue posizioni. Fa invece i conti con la complessità del linguaggio e con l’incisività storica della ‘demistificazione’ cristica della cultura sacrificale: fra le novità inaugurate dalla demistificazione evangelica c’è anche quella di una, del tutto nuova, accezione del sacrificale, definibile come ‘sacrificale cristico’, che diventa negazione ancora più radicale del ‘sacrificale di sempre’ in quanto viene sostituito da un atteggiamento assolutamente anti-sacrificale che è quello del “dono di sé per la vita degli altri”. Non del “sacrificio di sé”, concetto che resta nella piena cultura sacrificale con il suo significato di ‘rinuncia’, ma nel “dono di sé” e questo dono non cercato per se stesso, per una masochistica ‘rinuncia di sé’, bensì al fine (ecco l’obiettivo primo) della “vita degli altri”. Pensiamo ai tanti “martiri missionari” dei quali facciamo memoria il 24 marzo, in ricordo del “sacrificio” di Mons. Romero, ucciso dagli squadroni della morte esattamente il 24 marzo del 1980. Pensiamo al sacrificio di Padre Puglisi al quale pure l’avevano promesso e tuttavia non si era tirato indietro. Tutte persone il cui ‘sacrificio’ acquista una profondità cristica, perché Cristo ha vissuto per primo in maniera evidente questo “dono di sé per la vita degli altri”. Nel linguaggio comune definiamo la sorte di Mons. Romero, di Padre Puglisi, di Annalena Tonelli, volontaria assassinata in Somalia il 5 ottobre del 2003, e di mille altri testimoni del genere, come ‘vita sacrificata per gli altri”. Ne facciamo una lettura “sacrificale” in senso ‘arcaico’, oppure facciamo funzionare una ‘valenza cristica’ che si è ormai inscritta nella cultura umana? In fondo il recupero che Girard fa, a livello di linguaggio, del termine ‘sacrificio’ in una contrapposizione dialettica e irriducibile tra ‘sacrificio arcaico’ e ‘sacrificio cristico’, esprime una più compiuta coerenza del modello stesso: l’evento non sacrificale (in senso arcaico o storico-religioso) della morte di Cristo apre una nuova possibilità di porsi nel contesto della violenza, che non è solo quella della prassi etica nonviolenta, ma anche quella della disponibilità a subire la violenza senza lasciarsi distrarre dal proprio obiettivo di amore per gli altri compresi i nemici, per disinnescare le ragioni della violenza stessa. In fondo questo è già inscritto nel metodo nonviolento della lotta gandhiana, dove l’attivista nonviolento è disposto a soffrire per il trionfo della verità ma mai a far soffrire e il suo essere disposto a soffrire, non per ‘spirito di sacrificio’, ma per porre un gesto che possa giungere al cuore dell’altro e cambiarlo. E sappiamo come Gandhi sia stato influenzato nell’enucleazione di questo metodo di lotta proprio dalla lettura evangelica del “discorso della montagna”.

Quanto detto a proposito dell’accezione cristica (e perciò antisacrificale) della nozione di ‘sacrificio’, è altra cosa dalla cosiddetta rilettura sacrificale del Vangelo operata dalla storia del ‘cristianesimo reale’ (mi si passi questa espressione, in evidente analogia con quello che veniva chiamato il ‘socialismo reale’). Qualche teologo parla di ‘deconversione’ (una sorta di s-conversione, … di ritorno al ‘prima’ della conversione …) e addirittura di ‘perversione’ di certa teologia (e prassi conseguente, o viceversa) che avrebbe rimesso indietro le lancette della storia sacrificale, ‘sacrificando’ la ‘novità cristiana’ per poter parlare e vivere ancora la giustificazione sacrale della violenza. Bisogna sottolineare con forza la differenza fra ‘sacrificarsi’ e ‘donarsi’. Girard è stato a lungo diffidente del termine ‘sacrificarsi’ perché gli sapeva troppo di ‘masochismo’. E se recupera il ‘donarsi’ lascia intatta la sua diffidenza sull’atteggiamento masochistico di certa spiritualità cristiana. Penso a San Francesco che in un’epoca di ‘flagellanti’ e di spiritualità chiaramente sacrificale, che è continuata imperterrita nei secoli successivi, vive la sua scelta ascetica in profonda sintonia con la semplicità e la bellezza della natura, della solidarietà con i ‘minores’, con la gioia nel cuore che cantava la vita. La sua scelta di povertà era per condividere la condizione dei poveri del tempo (sublime il suo condividere con gioia la vita dei lebbrosi … autentiche vittime sacrificali del tempo!), nell’imitazione di Cristo, mimesi assolutamente non rivalitaria e di puro dono di sé. Sul letto di morte Francesco chiederà perdono al suo fratello corpo per averlo trattato da asino, quasi in un estremo tentativo di purificazione da una spiritualità sacrificale di stampo masochistico, della quale anche lui, pur così anti-sacrificale nella sostanza, era stato per certi aspetti succube.

Se, sia pure con sguardo superficiale, ci guardiamo anche poco attorno, vediamo da una parte un mondo talmente edonistico che aborre qualunque forma di ‘sacrificio’ (ma anche di impegno), dall’altro una crescita esponenziale di una cultura della violenza, dell’arroganza, della sopraffazione che si insinua in tutte le pieghe della vita (e della scienza persino!), oltre che sui grandi scenari mondiali. Forse allora il riprendere in mano il termine ‘sacrificio’, in questo contesto edonista e violento, e il riprenderlo in mano come fa Girard sottolineandone l’assoluta incompatibilità con il ‘sacrificale arcaico’, non solo offre la possibilità di sottolineare la ‘novità cristiana’, ma anche la ‘serietà della scelta cristiana’, una scelta per la gioia contro l’edonismo, della solidarietà contro la sopraffazione; una scelta di nonviolenza disposta ad andare sino in fondo per disinnescare la violenza stessa, ma senza tirarsene fuori e pertanto subendola, se necessario, senza arretrare nel proprio impegno di costruzione di una umanità nuova, solidale, inclusiva e non esclusiva. Un recupero dunque che dovrebbe far fare un passo in avanti verso la costruzione di una comunità eucaristica e non il ritorno a forme di comunità sacrificale.

In questa ‘Antropologia della Croce’ che sembra caratterizzare il cuore della proposta girardiana, in che modo si inserisce la fede nella Resurrezione? O meglio, in che modo la proposta antropologica di questo autore stimola la riflessione teologica riguardo alla Resurrezione? Una tale domanda pone il problema del rapporto fra Girard e la teologia. Girard è un antropologo e non un teologo. Legge il Vangelo da antropologo e non da teologo. Girard è un credente che, come si evince dai ‘recenti’ racconti della sua conversione (avvenuta però nel 1959), ci tiene a definirsi pienamente cattolico. Ma penso che la sua lettura antropologica del Vangelo si terrebbe in piedi anche se lui fosse stato un non credente: il testo del vangelo (nel contesto di tutta la letteratura biblica), nel racconto della Passione, “rivela” in maniera compiuta e magistrale il fondamento violento della cultura umana. La Resurrezione non sembra giocare un grande ruolo in questo “modello interpretativo”. In realtà la Resurrezione ha a che fare con la profondità teologica del Vangelo: segna l’intervento diretto di Dio che sancisce il giudizio di Dio su Cristo e sulla storia violenta degli uomini, l’offerta radicale della salvezza di Dio per l’uomo. Quindi Girard non può che balbettare (per coerenza epistemologica) davanti alla profondità del Mistero. Restando nel piano antropologico della demistificazione del meccanismo vittimario, egli afferma che la Resurrezione è ciò che permette questa demistificazione. In che senso? Nel senso che il racconto della Passione di Cristo come l’abbiamo nei Vangeli è il frutto della “conversione” dei suoi discepoli. Il pensiero di Girard è in un certo senso storico e positivista: non è il fatto dell’evento di Cristo che demistifica completamente la violenza della cultura sacrificale umana; è il racconto di questo fatto, racconto reso possibile da un gruppo di persone che si è sottratto al meccanismo vittimario, all’unanimità della folla violenta, dopo esserne stata contagiato (il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, la fuga dei discepoli). E questo gruppo di persone ha potuto sottrarsi al contagio iniziale grazie ad una ‘conversione’. A che è dovuta questa conversione? All’esperienza della Resurrezione, all’intervento del ‘Paraclito’ (il difensore delle vittime!!!). Dal punto di vista della lettura girardiana – che si gioca tutta sul piano antropologico – l’evento della Resurrezione è ciò che sta a monte dell’esperienza di conversione dei discepoli, esperienza di conversione che ha permesso loro, nel ricordo delle Parole prepasquali di Cristo e nell’esperienza della sua morte innocente, di spezzare per sempre, e con una forza ormai impossibile da tacitare, la lettura ideologica (mitologico-sacrificale) della violenza umana.

Dunque in che maniera il modello girardiano stimola la riflessione sulla resurrezione? Tento una  prima risposta, molto provvisoria. Se Girard ha ragione, se cioè, in termini scientifici, il suo modello resiste alla falsificazione, allora dobbiamo prendere davvero sul serio gli effetti che sulla storia umana ha l’incisività del Mistero. Una prima grande riflessione teologica che Girard ci suggerisce è questa: il Mistero è invisibile, accostabile solo per fede, ma la sua efficacia storica può essere riconosciuta, è visibile. Certamente, seguendo il modello girardiano, potremmo anche interpretare il racconto della Passione come frutto della pura umanità del gruppo che è pervenuto, grazie al combinato messaggio prepasquale/testimonianza di Cristo davanti alla morte violenta, alla demistificazione del meccanismo vittimario. Ma ciò, afferma il credente Girard, sembra talmente singolare da essere improbabile. E comunque la portata della rivelazione antropologica sulla cultura umana appare come una traccia luminosa del Mistero, una traccia della Resurrezione, il frutto dello Spirito.

Allo stesso modo potremmo chiederci in che modo il pensiero girardiano stimoli la Missione della Chiesa. La Missione è sognare e concretamente operare per un mondo nuovo, solidale, inclusivo e non esclusivo, eucaristico, e soprattutto un mondo dove la violenza non abbia più ragione di esistere, tanto meno sacralizzata. Dunque penso che l’antropologia girardiana sia in consonanza profonda con il grande obiettivo della Missione che è quello di trasformare un mondo diviso, ostile, diseguale, preda della violenza, della miseria, della povertà, della malattia, dell’ignoranza, in qualcosa di diverso, dove i rapporti tra gli uomini siano generati dalla solidarietà e non dalla violenza né palese né mascherata (sacrificale), dall’atteggiamento del dono di sé e in definitiva dalla fede in Gesù Cristo.

Certamente si pongono dei problemi, che sono però nei fatti. Innanzitutto il modello girardiano mette in crisi il modello storico di cristianesimo, lo chiama ad una conversione evangelica in quanto, se di modello apologetico del cristianesimo possiamo parlare, non è certo di una apologia dell’esistente, ma delle possibilità insite nel messaggio originale troppo spesso ricoperto da veli spuri. E quindi mette in crisi probabilmente anche un modello di missione, di rapporto con gli altri anche in senso culturale e religioso.

Per quanto riguarda il problema del dialogo con le altre religioni, qui la riflessione di Girard forse non è del tutto matura e forse altri avranno il compito di farla maturare. In questo ultimo periodo Girard comincia a riconoscere il valore per il progresso umano delle grandi tradizioni sacrificali (compreso quindi anche il cristianesimo storico …). Inoltre Girard non ha una conoscenza approfondita delle grandi religioni. Occorre quindi che il modello si applichi e si affini anche alle grandi tradizioni religiose. In ogni caso se lo stesso cristianesimo storico ha bisogno di convertirsi per purificarsi dalle incrostazioni sacrificali, altrettanto dovranno farlo le altre tradizioni religioni al fine di costruire una umanità libera dalla violenza, sacra o profana che sia! Per quanto riguarda l’Africa in particolare, i missionari sanno meglio di altri quanto oppressiva sia la cultura sacrificale tradizionale.

Questo è altra cosa dal riconoscere valori nelle culture tradizionali, da utilizzare per inculturare il vangelo stesso. E come è necessario analizzare la missione cristiana per i suoi aspetti legati al colonialismo, per i suoi aspetti ancora legati al sacrificale che ha portato a volte a sostituire un pensiero e una prassi sacrificale con un altra, sarebbe anche importante studiare l’impatto di una religione nel suo nucleo fondamentale assolutamente non sacrificale come il cristianesimo, con le culture tradizionali, ancora profondamente mitologiche. Anche da questo punto di vista l’impatto ha trasformato questi popoli. Se è vero che ci sono molte ombre, è innegabile che tra le ombre c’è anche molta luce. Altrimenti non si capirebbe come mai oggi le strade del recupero della propria cultura passa soprattutto attraverso una cristianizzazione dell’Africa da parte degli Africani stessi. Per quanto riguarda il contrasto fra il secolarismo europeo, nel quale sembra sfaldarsi la bimillenaria tradizione cristiana, e le grandi tradizioni religiose che sembrano resistere meglio nella loro caratterizzazione sacrale, trovo che proprio il modello girardiano della demistificazione sacrificale potrebbe offrirci un modello interpretativo in grado di spiegare contemporaneamente le due cose insieme in quanto entrambe in coerenza con lo stesso modello.

Penso quindi che questo modello girardiano è un modello che fa pensare, che offre delle prospettive interpretative e dei possibili percorsi che da queste prospettive interpretative possono scaturire. Può anche risultare inadeguato, creare più problemi di quanti ne possa risolvere o illuminare, ma perché non provare a verificare?



[1] Il pensiero di René Girard tra ‘sacrificio’ e ‘dono’,  in Cultura e Prospettive, supplemento a Il Convivio, Aprile –  Giugno 2010, n. 7, pp. 67-72. F. PIGNOTTI, Dal sacrificio ‘arcaico’ al ‘sacrificio’ di Cristo. Per una antropologia della conversione in René Girard, Firmana, Supplementi n. 3 Fermo, 2004

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