Mal d’Africa

L’approdo: l’Africa 

All’inizio dell’estate del 1985 ero ripartito da Londra con una grande ansia: non mi sarebbe stato facile trovare un lavoro in Italia, non sapevo da che parte cominciare. Inoltre mi dispiaceva lasciare la grande città a cui mi ero ormai affezionato. Ma ero guidato dalla forza dell’amore ed avevo fiducia nel mondo. A settembre trovai lavoro in una falegnameria, nel mio paese natale, cosa che mi permise di guardare con serenità al futuro e cominciare a preparare il nido, una casa in campagna presa in affitto, sufficientemente grande anche per fare eventualmente accoglienza. Nell’aprile successivo ci sposammo e cominciò la nostra vita in comune.

I nostri primi discorsi a Spello avevano riguardato il comune amore per l’America latina; i nostri primi progetti come coppia sposata si indirizzarono invece all’Africa. Nei miei vari vagabondaggi infatti avevo conosciuto una giovane coppia, Elio ed Elisabetta, con un bambino di sei anni, Federico, che erano appena tornati da una esperienza di volontariato di tre anni in Burundi. Fino a quel momento non avevo mai immaginato che anche una famiglia con bambini avesse potuto partire per terre lontane, il cosiddetto Terzo Mondo. La cosa che aveva colpito la mia fantasia era soprattutto un piccolo particolare che Elio ed Elisabetta mi avevano raccontato: Federico, portato in Burundi che aveva appena tre anni, aveva imparato presto così bene la lingua locale nei suoi giochi con i bambini del villaggio dove vivevano, che molto spesso finiva per fare da interprete ai suoi stessi genitori, più ‘lenti’ ad apprendere.

Subito dopo il nostro matrimonio, abbiamo iniziato ad accostarci al mondo del volontariato internazionale, per noi fino a quel momento del tutto sconosciuto. Provenienti entrambi da ambienti ecclesiali, l’impegno nel Terzo Mondo per noi si identificava con la realtà dei missionari e delle missionarie, persone coraggiose senz’altro, ma ‘fuori dalla vita normale’ dei laici. Mi resi conto invece che, per tutti gli anni nei quali avevo vagabondato fra monasteri, eremitaggi, comunità alternative e quant’altro avevo incontrato nella mia ricerca spirituale, altre realtà di base, anch’esse più o meno dentro o fuori la chiesa, si erano mosse su sentieri di carattere sociale, i sentieri del volontariato. Giovani e meno giovani che avevano condotto delle esperienze missionarie in svariati paesi di quello che allora veniva ancora definito il Terzo Mondo, come i miei amici Elio ed Elisabetta, al loro rientro si erano affrancati dal mondo missionario e avevano dato vita ad associazioni ed organizzazioni di volontariato laiche, votate alla cooperazione allo sviluppo dei popoli. Erano nate così negli anni settanta e ottanta una miriade di Organizzazioni Non Governative (ONG) di svariato indirizzo e provenienza, raccolte per lo più in due federazioni, una di ispirazione cristiana, la FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario), e una di ispirazione laica, il COCIS (Coordiamento degli Organismi di Cooperazione Italiana per lo Sviluppo). Queste ONG facevano progetti di cooperazione e di sviluppo in collaborazione con partner locali nei paesi dove operavano, e richiedevano finanziamenti allo Stato Italiano in base alla legge sulla cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo (PVS). Da espressione più o meno spontanea, la solidarietà internazionale si era tramutata in rigorosa progettualità che ricercava efficacia ed efficienza. In questa progettualità rigorosa era prevista anche la presenza di figure ben definite di volontari internazionali.

Il mio vagabondaggio degli anni precedenti, si tramutò in una più pragmatica ricerca di una ONG che ci offrisse la possibilità di partire come volontari internazionali. Dopo aver contattato diverse di esse, la nostra scelta cadde sul Centro Volontari Marchigiani (CVM) di Ancona, che ci proponeva subito un progetto. Il CVM cercava un falegname ed una sarta per avviare un nuovo progetto in Zambia, una scuola professionale alla periferia di una grande città, Ndola nella provincia mineraria del Copperbelt. Le professionalità erano quelle giuste: io stavo lavorando in una falegnameria e mia moglie era sarta; se avessimo accettato, saremmo partiti subito. Ma noi avevamo i nostri sogni, volevamo partire non come coppia, ma come famiglia, con la presenza quindi almeno di un bambino e per fare un bambino ci stavamo impegnando, ma richiedeva del tempo. Preferimmo perciò essere scritturati come seconda équipe del progetto. Ogni progetto infatti doveva avere la durata media di cinque o sei anni, con due équipe che si sarebbero dovute avvicendare per un periodo di circa tre anni ciascuna.

Partimmo così non quell’anno, il 1986, che era stato anche l’anno del nostro matrimonio, ma tre anni dopo, nel 1989, insieme al nostro primo figlio, Marco, che allora faceva il suo primo compleanno. Marco ha cominciato a fare i suoi primi passi e a proferire le sue prime parole compiute in Zambia, dove giornalmente eravamo costretti a parlare tre lingue: l’italiano, l’inglese e il cibemba. Davanti alla nostra casa, situata all’interno di una grande missione, il Franciscan Centre, per qualche tempo girovagava un coniglio e il piccolo Marco ne era affascinato. Lo chiamava non appena lo vedeva: “Rabbit, isa kuno, non andare via!” mischiando l’inglese (rabbit – coniglio) con il cibemba (isa kuno – vieni qui) e l’italiano (non andare via), ma osservando perfettamente le regole grammaticali.

Ci siamo resi conto, negli anni della nostra permanenza in Africa, di quanto fosse stata opportuna la nostra scelta di partire come ‘famiglia’. In Africa la famiglia è il valore fondamentale: il valore di un uomo si misura dal numero dei suoi figli. Tra i Bemba, i genitori prendono persino il nome dai figli: per tutti, io ero BashiMarco (il padre di Marco) e mia moglie era BanaMarco (la madre di Marco); una sorta di genealogia alla rovescia dove la cosa importante non è “essere figlio di” ma “essere padre di”. I figli sono la forza e l’identità dei genitori. E quando poi è arrivata una bambina, tutti a congratularsi con noi per essere diventati padre o madre “di due”: ancora lontani dal numero mediamente ideale, almeno sei, ma per lo meno sulla strada giusta. Nella tradizione delle etnie matrilineari dello Zambia, il matrimonio costituiva non, come per noi, un evento singolo, la festa di un giorno, da immortalare con uno splendido album fotografico; ma un processo che durava anni e si compiva con l’ultimo atto rappresentato dall’ammissione dell’uomo, per la prima volta, al comune pasto con i genitori della donna, nella loro capanna, dopo il terzo figlio! Solo allora, dopo aver dimostrato piena capacità generativa ed educativa, il processo fondativo di una nuova famiglia poteva dirsi concluso.

Noi però non eravamo in un ambiente tradizionale, nell’Africa dei villaggi ancestrali, ma in una tipica melting pot urbana, nella periferia di una grande città mineraria, dove tutte le tradizioni si mescolavano, si imbastardivano e si svilivano alle prese con le miserie infinite di gente nata e cresciuta in situazione di sradicamento. Abbiamo lavorato in un progetto di scuola professionale, che intendeva offrire ai ragazzi e alle ragazze di queste periferie degradate la possibilità di apprendere un mestiere. Alla fine dei due anni di corso, insieme al diploma, venivano consegnati ai nostri studenti gli strumenti minimi del mestiere e con questi potevano  iniziare a lavorare in proprio, guadagnarsi qualcosa per vivere. Durante il corso di formazione professionale, tutti i  nostri studenti avevano la possibilità di condurre degli stage lavorativi presso ditte o industrie presenti a Ndola e in altre città di questa regione mineraria e perciò anche industrializzata.  Il mio lavoro come volontario quindi mi ha posto in stretta relazione con il tessuto vivo della realtà economica di questo importante centro cittadino dello Zambia, così pure come con le autorità governative, soprattutto del Ministero dell’Istruzione, a motivo di tutte le incombenze burocratiche della scuola professionale che io gestivo.

Se nel mio vagabondaggio umano e spirituale degli anni precedenti avevo frequentato quasi esclusivamente luoghi alternativi e marginali, dove condurre la mia ricerca di un senso vivibile in una società opulenta e consumistica per la quale  sentivo un viscerale rifiuto, ora mi trovavo immerso nelle strutture portanti della società di questo paese africano, dove la marginalità era invece la condizione insostenibile della maggioranza della popolazione, soprattutto giovanile, e  il mio lavoro consisteva nell’aiutare quanti più giovani mi era possibile a trovare una propria possibilità di integrazione in una normalità vivibile. Per la prima volta, in Zambia, mi sono sentito parte integrante di una società, attraversata da infinite sfide e contraddizioni, che io, nel mio piccolo, ero impegnato a raccogliere e rilanciare, insieme a tutte le forze più vive presenti. Un tentativo disperato, ma il luogo giusto dove mettere a frutto con profitto i propri anni e le proprie energie. Insomma mi sono sentito a casa mia e parte di una grande avventura umana.

Ma la terra del mio approdo spirituale, l’Africa, non poteva rimanere la terra della mia permanenza materiale. Ho vissuto “l’Africa” complessivamente per un decennio, tra preparazione, ritorni e nuove partenze, fino a quando  nel luglio del 1996 siamo rientrati definitivamente in Italia. E’ cominciato allora, e dura tutt’ora, un intenso impegno per dare il mio piccolo contributo a creare nella nostra società, tra i nostri giovani, una mentalità aperta al mondo. Potrei dire di aver trovato finalmente la mia dimensione nel cuore della mia città, da cui un tempo fuggivo, ma di cui ora raccolgo la sfida. Perché come diceva Gandhi, “il nostro obiettivo è l’amicizia con il mondo intero”.



[1] Gli incontri di Spello IV. Il mio approdo definitivo, “Il salotto degli autori”, Primavera 2010 (Anno VIII, N.30) pp. 28-29

 

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