Il futuro sta nel passato

Preti sposati nella Chiesa cattolica?

Il molteplice nell’universale

Dire semplicemente “Chiesa Cattolica” senza altra specificazione, intendendo con questa espressione tout court la chiesa che conosciamo noi, significa restare in una indeterminatezza linguistica. In inglese infatti non basta dire “Catholic Church” per identificare la chiesa del papa, occorre aggiungere l’aggettivo “Roman”, perché “Catholic Church” in inglese può significare tanto la Roman Catholic Church, quanto la Anglican Catholic Church. Ma questo è solo la prima delle inesattezze dell’espressione ‘Chiesa Cattolica’ usata senza altre specificazioni. Infatti anche restando all’interno della ‘chiesa del papa’, dire semplicemente ‘Chiesa Cattolica’ significa rimanere ancora nell’indeterminatezza, perché, formalmente parlando, con questa espressione non sappiamo ancora se vogliamo intendere “la Chiesa Cattolica di Rito Latino”, oppure una delle Chiese Cattoliche di “Rito Orientale”.

La Chiesa è una realtà composita; il termine ‘cattolica’ significa infatti ‘universale’ e nell’universale non può che esserci il molteplice. Da secoli questa sua vita composita viene regolata da un ‘diritto canonico’ che, formatosi lentamente nella storia grazie a decisioni delle varie istanze del magistero (vescovi locali, sinodi, concili, papato), ha ricevuto una forma universale sotto forma di ‘codice’ solo nel XX secolo. Ma quanti, mi chiedo, nella Chiesa Cattolica di Rito Latino, sono consapevoli che papa Giovanni Paolo II ha promulgato non un solo codice di Diritto Canonico, il cosiddetto CIC[1] per la chiesa di rito latino, ma anche un secondo codice, il cosiddetto CCEO[2] per le chiese di riti orientali? Le Chiese Orientali che si definiscono ‘cattoliche’ in quanto unite a Roma sono ben sono 23 e molte di esse hanno riti propri che condividono con le loro consorelle Ortodosse[3]. La storia della Chiesa globalmente intesa è molto più complessa di quanto in genere conosciamo. Mi colpisce anche il fatto che mentre la Chiesa Cattolica di rito sia latino che orientale abbia potuto definire il Vaticano II come “Concilio Ecumenico”, per definizione ‘un concilio di tutte le chiese’, le Chiese Ortodosse sanno che non possono celebrare un Concilio Ecumenico senza la partecipazione integrale del “Patriarcato di Roma” come loro definiscono la Chiesa Cattolica di Rito Latino. Se la Chiesa Cattolica può davvero rivendicare l’ecumenicità del proprio concilio e della propria chiesa, lo è proprio per la presenza nel suo seno delle Chiese Orientali in quanto questa presenza fa si che essa non possa essere definita semplicemente come il Patriarcato di Roma tout court poiché comprende, nel suo seno, anche gli altri ‘patriarcati’ per quelle porzioni che sono unite alla ‘sede di Pietro’, appunto le 23 Chiese Cattoliche di Riti Orientali. Anzi possiamo dire che sono proprio esse che permettono la cattolicità in senso estensivo. Come potrebbe infatti una chiesa definirsi ‘universale’ se non avesse nel suo seno proprio la molteplicità tipica dell’universale? Giovanni Paolo II riprendendo una espressione già usata precedentemente, ha definito la Chiesa Cattolica come una chiesa che respira a due polmoni, il polmone latino e il polmone orientale. Senza questi due polmoni essa non sarebbe se stessa o sarebbe se stessa ma in maniera monca, gravemente deficitaria[4]. Dunque ‘per definizione’ i Riti Orientali appartengono alla Chiesa Cattolica. E il Concilio Vaticano II ne era ben consapevole al punto da partorire uno dei suoi documenti dedicato a questa realtà: la Orientalium Ecclesiarum.

La realtà dei preti cattolici sposati

Parte integrante dei riti orientali è la presenza nel suo seno, da sempre, presenza bimillenaria dunque, sia del sacerdote celibatario, in genere il monaco, sia del sacerdote ‘uxorato’, cioè ‘sposato’. L’abbinamento ‘sacramento dell’ordine’ e ‘celibato’ esiste, con una sua tipica spiritualità, ma esiste anche, da sempre, l’abbinamento ‘sacramento dell’ordine’ e ‘matrimonio’, anch’esso con una sua tipica spiritualità basata appunto sul matrimonio. Il CCEO prevede dunque ufficialmente la possibilità dell’ordinazione presbiterale per uomini sposati, e la prevede non come prassi eccezionale, ma come prassi normale. Ora mentre il CIC era già stato promulgato nel 1917 da papa Benedetto XV e quello del 1983 costituiva una sua revisione,  il CCEO promulgato nel 1990 è stato una creazione ex novo, anche se ad esso era stato messo mano più volte almeno nelle intenzioni. Si trattava con esso di dare unitarietà ai canoni tradizionali che reggevano la vita di queste chiese in modo da salvaguardare la loro esistenza dalla stessa tendenza alla ‘latinizzazione’[5], tendenza che preferirei definire come imperialismo cattolico-latino sulle altre formazioni ecclesiali. Giovanni Paolo II, dunque promulgando questo secondo codice per le chiese che ‘respirano con il polmone orientale’ ha assicurato di fatto l’esistenza, salvaguardandola per il futuro, del sacerdozio sposato anche all’interno della stessa Chiesa Cattolica. Di questa importante circostanza pochissimi nella chiesa sono a conoscenza e il fatto viene per lo più taciuto, o semplicemente non conosciuto, lasciandolo alla ‘damnatio memoriae’.

La cosa cambia però quando ci imbattiamo nel problema dell’immigrazione e del portato culturale che questo comporta. In Europa, e quindi in Italia, non abbiamo infatti solo una grande percentuale di immigrazione dai paesi islamici con il porsi, per la prima volta, sul suolo europeo, della autoctonicità di un Islam europeo; ma abbiamo anche una grande percentuale di immigrazione dall’est Europa, da paesi tradizionalmente ortodossi, dove vivono le ‘Chiese Cattoliche di Rito Orientale’. Gli immigrati di queste chiese hanno diritto di mantenere qui le loro tradizioni culturali e soprattutto la forma religiosa della loro fede. Dunque sono essi a portarci in casa il sacerdote cattolico sposato. Se la nostra chiesa cattolica di rito latino non ha voluto sino ad ora prendere in considerazione la possibilità del prete coniugato, nel tentativo di salvaguardare la tradizionale figura ‘sacra’ del prete, dovrà farlo per esigenza di forza maggiore a causa della presenza sempre più numerosa di preti cattolici sposati di origine esteuropea. Sarà la loro presenza a cambiare l’immaginario collettivo e questo cambiamento di immaginario collettivo potrebbe porre le basi per un cambiamento della legge del celibato ecclesiastico nella chiesa latina. Ma per il momento i vertici della Chiesa Cattolica in Italia stanno cercando di alzare una nuova ‘cortina di ferro’ contro questa possibilità. Nonostante infatti che il recente Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente, tenutosi dal 10 al 24 ottobre 2010 abbia espressamente dichiarato “Il celibato ecclesiastico è stimato e apprezzato sempre e dovunque nella Chiesa Cattolica, in Oriente come in Occidente. Tuttavia, per assicurare un servizio pastorale in favore dei nostri fedeli, dovunque essi vadano, e per rispettare le tradizioni orientali, sarebbe auspicabile studiare la possibilità di avere preti sposati fuori dai territori patriarcali”[6], il cardinal Bagnasco, rispondendo ad una esplicita richiesta in tal senso del primate della Chiesa Greco Cattolica Romena, mons. Lucian Muresan, pur riconoscendo la testimonianza di fede resa da questa chiesa martire durante la persecuzione comunista e pur esprimendo gratitudine per il servizio pastorale svolto dai suoi presbiteri, non vuol sentir parlare di  clero coniugato in Italia, anche se esso rappresenta ben l’80% di tutto il clero di quella chiesa. I preti di rito orientale, autorizzati a compiere il loro ministero fuori dalle loro diocesi di provenienza, dovrebbero essere, secondo lui,  solo quelli celibi. Gli altri no, dovrebbero restare là dove sono stati ordinati[7]. Il Vaticano teme infatti che essi possano provocare “scandalo”: se loro esercitano legittimamente il loro ministero dentro la Chiesa Cattolica pur essendo sposati – potrebbero infatti pensare i fedeli e il clero di rito latino – perché non lo possono essere tutti i preti?[8]  Ma evidentemente non tutti i vescovi in Italia sono dello stesso parere, per fortuna. Ho avuto modo di conoscere infatti un giovanissimo sacerdote romeno che nella diocesi di Milano è ufficialmente incaricato della pastorale degli immigrati romeni greco-cattolici: è un giovane ‘prete uxorato’, con una bella famiglia come tante, marito e moglie con un bambino piccolissimo e vispo. Questa realtà matrimoniale non toglie proprio nulla alla serietà e alla spiritualità della persona.

È chiaro che la posizione del cardinal Bagnasco è una battaglia di retroguardia, esprime solo lo smarrimento di certo clero cattolico di fronte a questa novità; una posizione destinata a perdere nel breve o nel lungo periodo, perché sono ormai state messe le basi per un cambiamento futuro di rotta.

Due autori sul tema

Recentemente mi sono imbattuto in due autori davvero sostanziosi che scrivono su questa tematica. Si tratta infatti di due studiosi appartenenti al mondo accademico: il primo, Stefano Sodaro,  dottore in giurisprudenza e laico, molto attivo nell’attività pastorale della sua diocesi triestina e nell’associazione  nazionale Pax Christi; il secondo, Basilio Petrà, professore ordinario di teologia Morale Fondamentale a Firenze presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e di Teologia Morale della Patristica Greca e Ortodossa a Roma, presso l’Accademia Alfonsiana e il Pontificio Istituto Orientale. Sacerdote cattolico, nato in Italia, ma da genitori greci, Basilio Petrà è autore prolifico di saggi sulla teologia morale e traduttore di numerose opere di teologi ortodossi; un autore dunque molto conosciuto e profondamente inserito nel mondo accademico teologico italiano. Eppure i testi di questi due autori, dedicati al presbiterato uxorato cattolico, sembrano del tutto sconosciuti; potremmo dire quasi boicottati dall’establishment culturale cattolico ufficiale[9].

Preti sposati nel diritto canonico orientale

Il libro di Stefano Sodaro, Keshi. Preti sposati nel diritto canonico orientale, 550 pagine fitte fitte, è dedicato espressamente ad una presentazione estremamente documentata sul tema del sacerdozio uxorato della Chiesa Cattolica, con una ampia premessa su tutta la gamma delle Chiese Cattoliche di Rito Orientale. Il volume costituisce la pubblicazione di una tesi di dottorato in Diritto canonico conseguito nel 1999 preso la Facoltà di Giurisprudenza del’Università degli Studi di Siena sul tema: “L’ammissione al Presbiterato degli uomini sposati nel diritto delle Chiese Orientali Cattoliche” ed è il primo studio che vede la luce dopo la promulgazione del CCEO il 18 ottobre 1990.

Keshi” è un termine usato nella lingua tigrigna, parlata in Eritrea e in parte dell’Etiopia e significa “prete sposato” distinto da “Abba” che è il nome del prete monaco o celibe. Questo termine, apposto nel titolo del libro, vuole anche essere un tributo a quella grande realtà della inculturazione del cristianesimo in una delle sue più interessanti espressioni, quella copta vigente in Egitto, Eritrea ed Etiopia.

Il volume nella prima parte di carattere piuttosto storico-descrittivo presenta le varie chiese orientali cattoliche raccolte in due gruppi: quelle derivate dalle tradizioni pre-calcedonesi e quelle derivate dalle tradizioni post-calcedonesi; per entrambi i gruppi l’autore sottolinea l’attuale piena comunione con la sede apostolica di Roma e il loro status ecclesiologico e canonico all’interno della chiesa universale. Viene così fatto conoscere il ricco patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare diversificato per popoli e culture di tutte queste varie espressioni del modo di incarnare la fede e la comunione ecclesiale. Difficile, se non impossibile trovare altrove una trattazione così completa di tutte le 23 Chiese Cattoliche Orientali, che sono una delle espressioni dei diversi ‘Patriarcati’ ortodossi da cui hanno avuto origine o si sono sviluppate[10].

Dopo questa ampia panoramica sulla pluralità delle forme ecclesiali presenti all’interno della cattolicità, l’autore affronta il tema centrale della sua ricerca e cioè la figura del presbitero coniugato, presentando, a partire dal CCEO, una serrata indagine dei vari aspetti della spiritualità del sacerdozio e del matrimonio vissuta dal presbitero coniugato con la sua doppia dedizione al ministero e alla scelta di vita familiare. Come scrive Padre Dimitri Salachas[11] nella sua Prefazione al libro, “L’autore analizza gli aspetti teologici della figura del presbitero coniugato, doppiamente sposo: con il sacramento dell’Ordine, egli è consacrato e destinato a pascere il popolo di Dio, adempiendo, nel suo proprio grado, nella persona di Cristo – sposo della Chiesa – le funzioni di insegnare, santificare e governare ed in quanto tale diventa ‘icona’ sacerdotale dell’unione fra Cristo e la Chiesa; con il sacramento del Matrimonio, egli diventa ‘icona’ dell’unione nuziale indefettibile di Cristo con la Chiesa”. Vengono affrontate questioni quali le possibilità concesse dal diritto della Chiesa al sacerdote cattolico sposato e la comprensione della sua identità di prete, marito e padre di famiglia, abbinamento che sembra così strano in occidente. Dopo una presentazione della configurazione canonistica del prete sposato, l’autore si sofferma sulla questione di quali siano le prospettive ecclesiali per un inserimento in Occidente del prete orientale cattolico sposato – questione che è un portato del fenomeno dell’immigrazione – , ma anche la questione molto più scottante della possibilità di ammettere, anche nella chiesa latina, presbiteri coniugati, in modo da avere anche qui il doppio canale del prete celibe e del prete sposato.

L’obiettivo dell’autore, pur con uno studio così poderoso, appare – come egli stesso afferma nell’introduzione – di carattere pastorale: contribuire ad un rinnovamento della pastorale della chiesa occidentale non con considerazioni di carattere teorico, ma con una nuova spiritualità pratica: “Il nostro obiettivo è dunque di consentire alla specifica disciplina orientale sui presbiteri coniugati di esplicitare un’efficacia innovativa con riferimento alla spiritualità del ministero presbiterale e del matrimonio e pure con riferimento alla Teologia Pastorale che deve affrontare le sfide inedite della complessità socio-culturale contemporanea”[12]. La Spiritualità potrebbe ricevere nuove suggestioni di approfondimento dalla comprensione dell’identità del presbitero coniugato orientale nella sua doppia appartenenza, mentre la Pastorale sarebbe chiamata costantemente a confrontarsi con la realtà vivente di una diversità ecclesiale antichissima, testimoniata dal ministero sacerdotale dei presbiteri orientali coniugati.

Nella sua conclusione, l’autore, attento per specifica formazione alle possibilità insite nelle forme giuridiche codificate, individua nella possibilità del ‘biritualismo’ – il fatto che sacerdoti cattolici di rito orientale possano essere autorizzati a celebrare nei territori latini secondo il rito latino – un primo decisivo passo per un cambio di prospettiva graduale all’interno della chiesa latina, che tenga conto anche della necessaria preparazione ambientale ad un simile cambiamento. Da questo punto di vista la presenza dei presbiteri coniugati al servizio delle comunità cattoliche di riti orientali immigrate in occidente, rivestirebbe il kairos, l’opportunità di una familiarizzazione della gente con questa ‘forma’ di prete. Così come, afferma l’autore, un’altra opportunità per una preparazione adeguata al cambiamento, può essere costituita dalla presenza sempre più diffusa del ‘diaconato’ permanente sposato, ripristinato dallo stesso concilio e che si sta diffondendo sempre di più. Insomma ci sono già strade concrete e percorribili per un cambio di rotta verso il recupero della Tradizione, a partire dalla Tradizione, anche nella Chiesa Cattolica di Rito Latino, oltre le paure delle sue attuali gerarchie.

Fin qui questo poderoso studio sul CCEO che dovrebbe trovare posto integrante nei programmi degli istituti di teologia. Ora però vorrei soffermarmi più diffusamente sull’altro autore, Basilio Petrà, che ha pubblicato, nel 2004, un libro sullo stesso tema ma con un taglio più decisamente ecclesiologico, Preti sposati per volontà di Dio? Saggio su una Chiesa a due polmoni, eche è tornato recentissimamente, nel marzo 2011, a rilanciare il tema con un nuovo breve saggio Preti celibi e preti sposati. Due carismi nella chiesa. Per esigenza di spazio mi limito alla presentazione compiuta di questo ultimo testo, con qualche rimando al precedente in nota.

Preti celibi e preti sposati. Due carismi della Chiesa Cattolica,

Il libro è dedicato al valore teologico del sacerdozio uxorato; un tema quasi mai affrontato non solo nella chiesa latina, ma nella stessa chiesa orientale. In questo piccolo studio, che riprende il suo libro precedente[13], Basilio Petrà, intende affermare che la Chiesa Cattolica, dal Concilio Vaticano II, ha riconosciuto formalmente il valore teologico del sacerdozio uxorato, considerandolo una forma distinta da quello celibatario, ma “ugualmente denso di valore teologico”. Tuttavia questo riconoscimento non viene pienamente recepito e viene anzi notevolmente ostacolato. L’autore ritiene sia giunto il tempo perché  sorga e si sviluppi una teologia del sacerdozio uxorato. Egli intende offrirne qui una prima ricognizione, anche se “a tastoni”, essendo lui stesso un sacerdote celibatario; si dice infatti convinto del fatto che solo un teologo che sia contemporaneamente anche sacerdote sposato, possa davvero sviluppare una seria e ben fondata teologia del sacerdozio uxorato. Dal momento che oggi, sia nelle chiese cattoliche di rito orientale che nelle chiese ortodosse, aumentano i teologi sacerdoti sposati, questa nuova pista potrebbe diventare ben presto possibile.

La prima questione affrontata è quella relativa al passaggio da una comprensione del celibato come ‘convenienza’ alla interpretazione dello stesso come ‘necessità’[14]. Paradossalmente, era più facile pensare ad una modifica della legge sull’obbligatorietà del celibato sacerdotale all’inizio del XX secolo che successivamente e soprattutto oggi in questi ultimi anni. Fino all’inizio del ‘900 infatti non è mai stato messo in dubbio la consapevolezza che la legge sul celibato fosse una legge della chiesa, senza alcun aggancio alla natura del sacerdozio. Il termine tradizionale per indicare il rapporto fra sacerdozio e celibato era “convenientia”: il celibato era considerato maggiormente funzionale al sacramento dell’ordine sacro, ma non essenziale; anche se questo di per sé suggeriva già l’idea che il celibato fosse più adeguato alla dignità sacrale del sacerdozio. Ma all’inizio del Novecento inizia un processo di sacralizzazione della figura del prete. Il CIC del 1917 considera infatti ‘sacrilegio’ la trasgressione della legge celibataria. Il ‘sacerdote’ è visto come un ‘essere soprannaturale’, sacro. A questa esaltazione sacra della figura sacerdotale, corrispondeva del resto una visione assolutamente povera e carente del matrimonio, considerato solo come mezzo di procreazione. L’enciclica del 1954 di Pio XII ‘Sacra Virginitas’, costituisce forse la massima espressione di questa prospettiva. In questo testo risulta chiaro come la decisione della chiesa latina di imporre la norma del celibato appare non più come una ‘convenienza’ o opportunità, ma quasi come una ‘necessità intrinseca’.

Con il Concilio Vaticano II cambia radicalmente la percezione del ruolo del sacerdote, non più visto eminentemente come ‘figura sacrale’, ma principalmente sotto l’aspetto del ‘ministero pastorale’, nella sua triplice funzione (profetica, sacerdotale, regale); conseguentemente, il CIC del 1983 lascerà cadere la configurazione ‘sacrilega’ della mancanza di fedeltà al celibato. Cambia radicalmente anche la percezione del matrimonio e della famiglia. Il matrimonio diventa una vocazione alla santità, esattamente come il celibato. Mentre la Humanae Vitae (che pure definisce ancora il matrimonio come ‘propagazione della specie’) sottolinea il carattere unitivo/procreativo del matrimonio, ripresa dalla Gaudium et Spes (nn. 49-50), la ‘Familiaris Consortio’ porta a compimento quella teologia del matrimonio facendone l’icona sponsale del rapporto fra Cristo e la Chiesa. Famiglia ‘piccola chiesa’ e chiesa ‘grande famiglia’. L’autore sottolinea come nell’enciclica la famiglia partecipi alla missione stessa della Chiesa[15]. “Il matrimonio e la famiglia cristiana dunque sono in sé orientati al servizio profetico, sacerdotale e regale della Chiesa e del mondo, a partire dalla dimensione domestica ma non chiudendosi in essa, aprendo piuttosto lo spazio familiare ai bisogni della chiesa e del mondo, secondo la vocazione propria di ogni famiglia”[16] .

La riscoperta della vocazione ‘ministeriale’, sia sacerdotale che diaconale,  si accompagna quindi a questa nuova teologia della sessualità e della famiglia. Se focalizziamo la nostra attenzione al tema in questione (la compatibilità fra sacerdozio e matrimonio), troviamo che la Chiesa Cattolica ritiene l’abbinamento fra ‘sacerdozio’ e ‘matrimonio’ non solo del tutto naturale nella ‘prassi tradizionale’ delle chiese cattoliche di rito orientale, ma anche, in alcuni casi, nel rito latino. In questo troviamo infatti sia il ripristino, operato dal Concilio, del diaconato permanente di uomini sposati, che la prassi, seppure in casi circoscritti, dell’ordinazione al presbiterato di uomini sposati.

Per quanto riguarda la prassi di ordinazione di uomini sposati nel rito latino, dobbiamo ricordare innanzitutto che all’inizio degli anni ’50 alcuni pastori della chiesa riformata luterana tedesca decisero di passare alla chiesa cattolica con le loro comunità. Pio XII consentì che fossero ordinati pur essendo sposati, con l’unica clausola che avrebbero limitato il loro ministero solo all’interno delle loro comunità. Del resto, il Concilio Vaticano II, nella Presbiterorum Ordinis al n.16, afferma a chiare note che il sacramento dell’ordine non è legato per natura al celibato, e che il loro rapporto è estrinseco; il Concilio inoltre introduce il diaconato sposato. Subito dopo il Concilio, Paolo VI, nella Sacerdotalis Coelibatus del 1967, richiama espressamente la possibilità di ordinare uomini sposati nel caso di comunità protestanti che ritornano nella chiesa cattolica[17]. Più recentemente, nel 1981, abbiamo il caso del clero episcopaliano che chiese di riunirsi a Roma dopo la decisione della chiese episcopaliane di aprire al sacerdozio delle donne. Infine, il caso più eclatante, è quello della recentissima Costituzione apostolica ‘Anglicanorum Coetibus’ del 2009 dove non solo si ribadisce questa prassi, ormai tradizionale, di accoglienza, di ex pastori anglicani sposati, al ministero presbiterale, ma addirittura anche alla funzione vescovile, pur senza una vera e propria ordinazione episcopale. Nelle “Norme complementari” della costituzione apostolica si prevede inoltre la possibilità di accesso agli ordini sacri di ‘uomini sposati’, e la si regola di conseguenza. La novità consiste nel fatto che non si tratta qui di ‘ordinare’ chi è già presbitero nella chiesa anglicana e passa a quella cattolica, ma di ordinare nuovi presbiteri nella nuova situazione già cattolica della chiesa in questione[18]. Si prevede dunque una cosa analoga a quella che avviene da sempre nelle Chiese Cattoliche Orientali. In tutti questi casi, come pure nel caso del diaconato permanente, non si parla mai di lex continentiae a cui sarebbero tenuti i presbiteri o i diaconi sposati.

Tutte queste circostanze sopra esposte: l’attenuazione della sacralità della figura del prete; la nuova teologia della sessualità e del matrimonio; la prassi di accoglienza di presbiteri sposati non cattolici che diventano cattolici, costituisce ormai un orizzonte da cui ci si potrebbe legittimamente aspettare una attenuazione del legame fra ‘sacerdozio’ e ‘celibato’.

Al contrario, è proprio in questo contesto che si è sviluppata una ‘teologia del celibato’ ancor più rigorosa. Il testo più importante in questo senso è la Pastor Dabo Vobis (PDV) che Giovanni Paolo II pubblica nel 1992 come ‘esortazione’ conseguente al sinodo del 1990, lo stesso anno della pubblicazione del CCEO[19].

Per la prima volta, nella storia della teologia ministeriale, si pone qui un legame ontologico fra celibato e sacerdozio. Mentre tradizionalmente si era sempre parlato del legame fra celibato e vita sacerdotale sotto il segno della ‘convenienza’, qui si parla di legame fra celibato e ordinazione sacerdotale sotto il segno dell’essenza.  Secondo questa ‘nuova’ concezione, l’ordinazione sacerdotale configura non solo genericamente a Cristo, ma a Cristo Sposo della Chiesa. I testi sponsali di Paolo dove parla di matrimonio e di Cristo Sposo della Chiesa Sposa, vengono piegati ad indicare la necessità ontologica del sacerdozio celibatario. Questa idea, espressa per la prima volta da Giovanni Paolo II, è stata immediatamente recepita dalla congregazione per il clero e dal successivo magistero pontificio. È difficile capire come questa nuova teologia del ‘sacerdozio celibatario per essenza’, si accordi con quanto viene affermato nel CCEO, fra l’altro pubblicato contemporaneamente e promulgato dallo stesso Giovanni Paolo II.

Presenza di una contraddizione fra prassi e dottrina

Secondo Basilio Petrà abbiamo qui una palese contraddizione tra Prassi e Dottrina, e si pone quindi il problema di come uscire da questa contraddizione; una contraddizione che non può essere negata, anche se molti tentano di farlo affermando che per la Chiesa il celibato è la regola e il matrimonio l’eccezione. L’eccezione, infatti, è possibile in quanto il legame tra sacerdozio e celibato non è di carattere intrinseco, bensì estrinseco, anche se ‘preferito’ perché più ‘conveniente’, da cui la regola[20].  Chi non vede questa contraddizione afferma invece che il celibato è sempre stato la legge della chiesa, anche se per molti secoli sotto forma di lex continentiae. Per questa corrente, sarebbe stato proprio l’Oriente a cambiare. Nel 1981 il gesuita francese Christian Cochini pubblica, in lingua francese, una dissertazione sulle origini apostoliche del celibato[21]. La tesi del Cochini è che sin dai tempi apostolici non si è trovata contraddizione, è vero, fra sacerdozio e matrimonio, ma chi veniva ordinato dopo il matrimonio era tenuto ad astenersi in maniera perpetua dai rapporti sessuali. La Chiesa ortodossa avrebbe cambiato questa regola nel Concilio in Trullo (691-692) che si tenne a Costantinopoli e che contiene la parte canonica del Quinto e Sesto Concilio, nel quale la continenza perpetua, che sarebbe stata osservata sino ad allora anche in Oriente, fu cambiata in continenza temporanea prima della celebrazione eucaristica. Per Cochini, il fatto stesso che la Chiesa orientale parli comunque della necessità della ‘continenza temporanea’, attesterebbe la regola precedente della continenza perpetua.

Questa posizione del Cochini è stata recepita da diversi autori, fra i quali anche un cattolico orientale[22]. Nonostante le varie critiche a questa posizione e qualche ripensamento da parte di qualcuno di questi stessi autori[23], la Congregazione per il Clero l’ha fatta propria e la ripresenta in tutti i suoi documenti o interventi, l’ultimo dei quali nel 2010, negli Atti di un convegno organizzato nel corso dell’anno sacerdotale, dove si scrive: “L’orizzonte della appartenenza ontologica a Dio costituisce inoltre la giusta cornice per comprendere e riaffermare, anche ai nostri giorni, il valore del sacro celibato, che nella chiesa latina è carisma richiesto per l’ordine sacro”[24].

Excursus sul libro di Cochini

A questo punto vale forse la pena aprire una parentesi riguardo al testo di Petrà che stiamo esaminando per concederci un piccolo excursus sul libro di Christian Cochini. Pubblicato, come già detto, per la prima volta a Parigi nel 1981, a ben 25 anni di distanza, nel 2006, come riprova della sua fortuna per la teologia ufficiale, ne era stata riproposta, sempre a Parigi, una seconda edizione. Di questa edizione francese del 2006, è recentemente apparsa una traduzione in lingua italiana nel gennaio 2011[25], trenta anni dopo la sua prima comparsa; con una prefazione di Stefan Heid, docente presso la facoltà Teologica dell’Università domenicana ‘Angelicum’ di Roma e uno di quegli autori che hanno ripreso e rilanciato la tesi del Cochini[26]. Il testo del Cochini è voluminoso e complesso, ma la sua tesi centrale è appunto che la legge del celibato affonda le proprie origini nell’età apostolica sotto la forma della lex continentiae, e che, su questo specifico punto, ad allontanarsi dall’età apostolica sia stata la chiesa orientale e non la chiesa occidentale che ha poi imposto la legge del celibato. Una tesi che lo stesso S. Heid, che pure la accoglie e la rilancia, presenta come di carattere ‘probabilistico’[27] e quindi, in fondo, opinabile.

Cochini assegna una grande importanza al Sinodo di Cartagine del 390[28]. In esso i vescovi presenti avevano chiaramente scritto come fosse tradizione risalente agli apostoli che i chierici maggiori (diaconi, presbiteri e vescovi), al momento dell’ordinazione, dovessero promettere di vivere in perfetta continenza. Una tradizione che, affermano, risalirebbe alla stessa antichità, una antichità che l’autore identifica tout court con l’età apostolica, ma che però potrebbe anche essere intesa piuttosto come ‘i tempi antichi’ del Primo Testamento[29].

Esattamente tre secoli dopo, nel 691, anche il Concilio Trullano si occupa, fra le altre cose, della stessa materia. I 250 vescovi presenti al Trullo (palazzo imperiale dove si svolse il Concilio) parlano di fedeltà ad una tradizione che risalerebbe agli apostoli, ma che qui sarebbe l’uso del matrimonio anche dopo l’ordinazione, motivandolo esplicitamente dal fatto che una legge diversa, e cioè l’imposizione della continenza, costituirebbe in pratica un disprezzo del matrimonio stesso[30]. Quindi potremmo dire al massimo “pari e patta”, anche se da una parte abbiamo un sinodo locale e dall’altra un concilio, cosa che è in ogni caso ben diversa. Quando i padri conciliari presenti al cosiddetto ‘Concilio Quininsesto’, si richiamano al Sinodo di Cartagine, lo fanno solamente per motivare la richiesta della continenza in occasione del culto, e per poterla riallacciare alla stessa tradizione apostolica. Appare evidente, ad una mente non preconcetta, che questa citazione del sinodo di Cartagine non è per motivare il richiamo alla tradizione apostolica tout court, ma solo per la questione della continenza in concomitanza del culto, per la quale forse i padri trullani non avevano riferimento tradizionale e per questo si rifarrebbero alla testimonianza di Cartagine, anche se a Cartagine si era finito per parlare di continenza perpetua e non di continenza temporanea.

Cochini invece interpreta con sufficienza l’operato dei Padri Conciliari del Trullo, come fossero persone ingenue che, per potersi richiamare alla Tradizione Apostolica, lo farebbero citando  quanto avevano scritto i pochi padri sinodali presenti a Cartagine 300 anni prima, senza peraltro accorgersi che a Cartagine essi avevano parlato di continenza perpetua e non temporanea. Ciò che, a mio parere invece, non si capisce, nella opinione di Cochini, è come si possa pensare che un Concilio, con una presenza massiccia di vescovi orientali, possa motivare la propria tradizione risalente agli apostoli, con il riferimento ad un sinodo locale di una chiesa occidentale, fra l’altro con pochissima partecipazione di vescovi.  Secondo l’interpretazione di Cochini, il Concilio Trullano diverrebbe, suo malgrado, testimone contro se stesso,  perché affermerebbe il valore normativo di quanto espresso dai vescovi cartaginesi (ai quali ci si richiamerebbe per poter parlare di tradizione apostolica), mentre ci si discosterebbe da essi su un punto essenziale (la continenza perpetua) ‘introducendo’ una cosa nuova (la continenza temporanea). In realtà sembrerebbe ovvio il contrario: per loro è tradizione apostolica propria (senza bisogno di appoggiarsi a chiese straniere) l’uso legittimo del matrimonio anche dopo l’ordinazione; mentre proprio per motivare la scelta della continenza temporanea (per la quale probabilmente non avevano dati tradizionali nelle loro chiese) si rifarebbero a quanto affermato dai vescovi cartaginesi. A questo punto sarebbe legittimo pensare che l’innovazione del concilio in Trullo fosse non la trasformazione della continenza perpetua in temporanea, ma la stessa introduzione dell’idea di continenza in occasione del culto.

Il sinodo di Cartagine, evidentemente, testimonia qualcosa appartenente alla propria tradizione ecclesiale. Il problema però qui è più complesso di quanto Cochini lascia trasparire. Le figure dei vari ministri, così come le troviamo sistematizzate alla fine del secolo IV, sono frutto di una lenta evoluzione. Non basta pertanto richiamarsi a quello che pensavano i vescovi cartaginesi nel 390, occorre ripercorrere un po’ la storia di quella chiesa nei due secoli precedenti. I grandi Padri della Chiesa Cartaginese sono stati Tertulliano (155-230) e Cipriano (210-258). Tertulliano e Cipriano testimoniano un passaggio estremamente importante. La chiesa dei primi secoli era una chiesa estremamente rivoluzionaria nei confronti della cultualità al punto che i cristiani dovevano difendersi dall’accusa di ‘ateismo’, non nel senso teorico, ma nel senso pratico: la loro vita spirituale sembrava non avere niente di ‘religioso’; la terminologia ‘sacerdotale’ nel Nuovo Testamento e nei primi secoli non veniva mai applicata agli ‘episcopi’, ai ‘presbiteri’ e ai ‘diaconi’, ma sempre o a Gesù Cristo (lettera agli Ebrei) o alla comunità (lettere di Pietro)[31]. Pertanto nella chiesa neotestamentaria non veniva considerato nessuno come parallelo dei sacerdoti antichi. Negli scrittori cristiani dei primi due secoli è ancora così. In Tertulliano troviamo il termine ‘sacerdote’ attestato 97 volte, ma solo 8 volte riferito al vescovo. In oriente, nella Didaskalia Apostolorum (prima metà del III secolo) si trova 14 volte riferito al vescovo. “In altre parole, nelle chiese d’oriente e d’occidente, sembra che agli inizi del III secolo si comincino a designare i ministri della chiesa come sacerdoti”[32]. La vera grande svolta, la si ha con Cipriano che qualche anno dopo userà 147 volte il termine per il vescovo e una volta per il presbitero. Ma la cosa ancor più significativa è che per Cipriano, coloro che ‘sono stati insigniti della dignità del divino sacerdozio non si devono dedicare a nient’altro che al servizio dell’altare e dei sacrifici e a recitare preci e orazioni’[33]. È chiaro che a questo punto venga recuperato tutto l’apparato sacerdotale dell’Antico Testamento per quanto riguarda il servizio all’altare; ‘altare’ infatti è un altro di quei termini quasi mai utilizzato nei primi due secoli, e solo successivamente ripreso pian piano nel ‘culto’ cristiano. La ‘continenza’ ai fini del culto allora appare chiaramente come un elemento di questa ideologia sacerdotale. La continenza temporanea in occasione del culto faceva infatti già parte del sacerdozio veterotestamentario. Ma ovviamente la ripresa di elementi del sacerdozio veterotestamentario nel culto cristiano avviene secondo una linea di radicalizzazione. Prima il culto cristiano veniva visto in contrapposizione al culto antico; ora verrà visto come radicalizzazione di esso, ma sulla stessa linea. E allora se il sacerdote antico doveva astenersi dal rapporto coniugale prima del rito, il sacerdote nuovo lo dovrà fare in perpetuo; anche perché, mentre nell’AT il culto era una questione di rito e di ritmo, con il N T esso era diventato la vita stessa del cristiano, nella sua quotidianità. Questo culto spirituale permanente, viene reinterpretato e radicalizzato sulla stessa lunghezza d’onda del culto rituale. E allora nasce l’esigenza della messa giornaliera, o anche più volte al giorno; logico che a questo punto la continenza diventi ‘perpetua’. Su questa linea, riferirsi alla tradizione degli antichi, era riferirsi in blocco alla tradizione veterotestamentaria, cosa che il sinodo di Cartagine del 390 aveva appunto fatto.

Allora possiamo chiederci chi davvero innova la tradizione autentica degli apostoli. La tradizione latina attestata al Sinodo di Cartagine, oppure la tradizione greca testimoniata dal Concilio in Trullo?

Lex continentiae o lex castitatis? Oltre le contraddizioni.

Riprendendo il filo del discorso, la combinazione tra la dottrina della PDV di Giovanni Paolo II e la presunta fondazione apostolica del celibato secondo Cochini, conduce la Congregazione a risolvere la contraddizione messa in luce da di Basilio Petrà, attraverso la Lex continentiae. In questo modo però si entra in contrasto con quanto il Concilio afferma a proposito del diaconato permanente sposato. Ma c’è già chi, basandosi sul Motu Proprio di Paolo VI  “Sacrum Diaconatus Ordinem”, comincia a parlare di necessaria lex continentiae anche per loro[34].

A questo punto è necessario chiedersi se, nella auto comprensione della Chiesa Cattolica di oggi, si debba parlare, per quanto riguarda sacerdoti e diaconi sposati, diobbligo della continenza o di dovere della castità[35].

Dopo aver presentato sia l’irrigidimento della posizione romana sul celibato che la contraddizione fra prassi canonica e dottrina teologica, l’autore fa rilevare una contraddizione ancora più profonda fra l’impostazione ‘latina’ e l’orizzonte della ‘cattolicità a due polmoni’. Egli parte da una premessa fondamentale: la ‘Chiesa Cattolica’ non è rappresentata dalla sola chiesa di Rito Latino come  si tende a pensare a tutti i livelli. Soprattutto dopo la promulgazione, da parte del romano pontefice, del CCEO, la “cattolicità” non può essere pensata se non con le sue due anime. Ambedue i codici (il CIC e il CCEO) sono espressione della Chiesa Cattolica e fedele manifestazione cattolica della Chiesa[36]. Importante è il fatto che unico è il promulgatore dei due codici, il papa, e questo è già espressione dell’unità nella diversità, tale però che non può esserci contraddizione, perché sarebbe una contraddizione dello stesso legislatore. Se contraddizione emerge, allora dobbiamo trovare una via che riesca a valorizzare le diverse tradizioni, senza lasciare cadere alcun contenuto, nella logica dell’etet e non dell’autaut.

Puntualizzazioni fondamentali

Nel tentativo di superare le difficoltà di un ‘magistero polimorfo’ secondo una logica inclusiva e  non esclusiva,  l’autore opera alcune puntualizzazioni fondamentali a partire dai documenti normativo e magisteriali[37].

Come prima cosa egli sostiene essere convinzione ‘cattolica’ che Dio chiama anche uomini sposati al sacerdozio. Attraverso l’analisi dei documenti conciliari e dei due codici di diritto canonico, appare evidente che in essi è presente la consapevolezza che Dio può chiamare una stessa persona ad un unico progetto di vita: sia al sacerdozio che al matrimonio. Pur parlando infatti di ‘convenienza’ della scelta celibataria per il sacerdozio, i documenti chiaramente esprimono la separabilità delle due cose e la caratteristica di legame ecclesiale e non essenziale. I documenti parlano infatti di “impedimento di legame”: l’uomo sposato non viene ordinato per ‘impedimento di legame’; ma da questo impedimento l’autorità può dispensare. La Presbyterorum Ordinis n. 16 e il CCEO can. 373-375 sono del tutto espliciti in questo senso. Dunque la Tradizione della Chiesa considera concretamente la possibilità di questo progetto unitario (sacerdozio e matrimonio) e dal momento che Dio chiama al sacerdozio, appare chiaro che, per il sentire cattolico della Chiesa, Dio chiama al sacerdozio anche uomini sposati. Ma, ci si potrebbe  domandare: la chiamata di Dio avviene rispettando i riti? Cioè Dio chiama uomini sposati nel rito greco e non chiama uomini sposati nel rito latino? È evidente che, dal momento che abbiamo appurato che Dio può chiamare al sacerdozio anche uomini sposati, non possiamo porre questo impedimento a Dio stesso. Inoltre la stessa prassi latina testimonia, come abbiamo visto, sia pure in via eccezionale, l’ordinazione di uomini sposati. Secondo lo stesso Cochini, fino al Concilio di Trento la chiesa latina ordinava uomini sposati, anche se con l’obbligo della continenza. E lo ha fatto anche dopo.

In secondo luogo l’autore sostiene essere convinzione ‘cattolica’ che gli uomini sposati chiamati al sacerdozio, sono chiamati alla lex castitatis e non alla lex continentiae. Come abbiamo visto, la posizione di alcuni autori, il Cochini in testa, è che quando la Chiesa dispensa dalla legge sul celibato, impone la legge della continenza. Dobbiamo però chiederci quale sia oggi il rapporto fra legge della continenza e sacerdozio nell’orizzonte ecclesiale odierno. Pur lasciando aperta la questione storica dell’affermazione secondo cui nella Chiesa Cattolica latina si sia sempre posto l’obbligatorietà della legge della continenza[38], e limitandosi ai documenti conciliari del Vaticano II, dobbiamo riconoscere che, a partire da questi documenti, e quindi per la coscienza ‘cattolica’ attuale, le cose non stanno come le pone Cochini. Al Diaconato sposato infatti si chiede la ‘castità coniugale’ non la ‘continenza sessuale’, come per ogni cristiano. Non viene rilevato nessun impedimento fra vita sessuale coniugale casta ed eucaristia, grazie alla nuova comprensione della sessualità e del matrimonio. Quindi nessun legame fra chiamata al ministero ordinato e legge della continenza. Questo non vale solo per il diaconato, ma anche per il presbiterato in quelle eccezioni fatte per i preti ex luterani, episcopaliani e anglicani passati al cattolicesimo. Nella tradizione orientale non si è mai parlato di legge della continenza nel senso latino, anche se esiste la regola dell’astinenza sessuale prima dell’eucarestia. Il CCEO poi non fa più alcun riferimento alla continenza sessuale prima della celebrazione, ma parla solo della legge della castità. In questo modo il CCEO cambia la tradizione orientale alla stessa maniera di come il concilio ha cambiato la legge per il diaconato. “Per ‘castità coniugale’ si intende non l’astinenza sessuale, ma il rispetto della legge morale nella celebrazione sessuale del matrimonio, quella legge morale all’osservanza della quale tutti i fedeli sono chiamati. I documenti della Chiesa parlano di ‘modo humano’ della sessualità coniugale.  Insomma è in gioco la verità umana sulla sessualità”[39]. In poche parole oggi,  nella coscienza della Chiesa, non c’è la legge della continenza, ma la legge della castità, da vivere sia nel celibato che nel matrimonio; e, nel celibato, da consacrati come da non consacrati.

Ma contro tale conclusione sembra ergersi il can. 277 § 1 del CIC[40]. Il canone 277 infatti opera una identificazione fra stato celibatario e identità del chierico, come natura intrinseca. In questo modo entra in contraddizione con altri canoni, in particolare con il 1037[41] che prevede lo stato matrimoniale per una classe di chierici (i diaconi) e in alcuni casi anche per i presbiteri. Si tratta di una contraddizione interna al CIC, se ci limitiamo alla sola chiesa latina; se invece lo pensiamo come rivolto all’intera Chiesa Cattolica, il canone in questione entra ancor più in contraddizione con il CCEO can 373-374[42].

Quale criterio interpretativo assumere per superare la contraddizione fra CIC e CCEO?Il CCEO è posteriore al CIC ed è promulgato dalla stessa autorità, per cui è ovvio interpretare il primo alla luce del secondo per quanto riguarda il can. 277 e così facendo si elimina anche al contraddizione fra il 277 e gli altri canoni del CIC stesso. Abbiamo dunque un criterio interpretativo solido. Non possiamo attribuire a Dio due volontà confliggenti, pertanto è la stessa cattolicità della Chiesa, nelle sue diverse tradizioni, che ci offre la via di uscita dalla contraddizione dovendola annullare nella superiore istanza della volontà divina. Ogni tradizione è relativa: quella orientale ha provato il valore del matrimonio e quella occidentale il valore della dedizione totale. Le due forme ministeriali che perdurano da due millenni sembrano portare avanti le caratteristiche espresse dai due grandi apostoli Pietro e Paolo: lo ‘sposato’ Pietro e il ‘celibe’ Paolo. “Per andare oltre la contraddizione, afferma Petrà, è sufficiente che le due tradizioni si aprano alla cattolicità e rinuncino a ogni pretesa egemonica, riconoscendo la ricchezza dei doni e delle chiamate divine”[43]. La tradizione orientale dovrebbe valorizzare di più la tradizione del sacerdozio paolino (celibatario). La tradizione occidentale dovrebbe invece fare spazio anche alla tradizione del sacerdozio petrino (uxorato) cominciando dalla valorizzazione, come da tradizione, dei ‘viri probati’ da ricercare all’interno della esperienza ormai acquisita dei diaconi permanenti.

La dignità teologica del sacerdozio uxorato

Dopo le chiarificazioni precedenti relative alla presenza della tradizione del sacerdozio uxorato, possiamo chiederci se nel Concilio sia esplicitamente presente anche una consapevolezza della dignità teologica del sacerdozio uxorato[44]. Da questo punto di vista dobbiamo innanzitutto dire che per il Concilio il sacerdozio uxorato è vero sacerdozio esattamente come il sacerdozio celibatario: in nessun testo traspare il contrario. Proprio perché è ‘vero sacerdozio’, il sacerdozio uxorato nasce da una  ‘divina chiamata’ confermata dalla Chiesa, al pari della chiamata al sacerdozio celibatario. Per questo motivo, trattandosi di vero sacerdozio ministeriale, il sacerdozio uxorato al pari di quello celibatario è investito di una particolare chiamata alla santità. È vero però che il Concilio pur parlando molto della vita dei preti celibi, non fa altrettanto per la vita dei preti uxorati; ma non manca di dire qualcosa di essenziale anche su questi ultimi. Quel che il Concilio ha insegnato sulla vocazione sacerdotale, tanto nella forma celibataria che nella forma uxorata, è stato fedelmente recepito e raccolto nel CCEO. Nel can. 323 troviamo la corretta distinzione fra ‘sacerdozio comune’ e ‘sacerdozio ministeriale’; ma nessuna distinzione all’interno del sacerdozio ministeriale. Nei can. 368-369 viene chiaramente espressa la identica chiamata alla santità per le due forme ministeriali che costituiscono pertanto entrambe ‘via per la santità’. Nel can. 374 si richiede in perfetto parallelismo la vita di castità, secondo la propria forma, per i due tipi di ministero. Appare evidente che la distinzione fra le due forme non è tanto sulla natura del sacerdozio, quanto sulla condizione esistenziale nella quale sono chiamati a vivere. L’ordinazione sacerdotale di un uomo sposato porta a compimento il senso sacramentale dello stesso matrimonio.

Con tutto questo dobbiamo riconoscere però che lo stesso Concilio è stato estremamente timido nell’affrontare esplicitamente il significato teologico del sacerdozio uxorato; per cui si ritiene sia giunto il tempo, per la stessa teologia, di spingersi oltre lo stesso Concilio nella ricerca di una visione sistematica della questione[45]. Dal XI secolo abbiamo una mole enorme di riflessione sul clero celibatario, tanto da generare il riflesso condizionato di una sorta di tautologia fra i termini ‘sacerdote’ e ‘celibe’. Al contrario, per quanto riguarda il clero uxorato, pur presente da ben duemila anni, non abbiamo mai avuto una adeguata riflessione teologica relativa.  L’autore dedica pertanto l’ultima parte del suo libro alla questione relativa al significato teologico del sacerdozio coniugato in quanto tale:  “in che senso il sacerdote sposato può essere – in quanto sposato e non nonostante che sia sposato – una immagine e una attuazione del mistero di Cristo sacerdote”. Si tratta di un primo tentativo di riflessione teologica per la quale l’autore, da una parte utilizza compiutamente la teologia del matrimonio emersa dal Concilio in poi; dall’altra fa riferimento a ciò che la tradizione bizantina dice in proposito.

Tralasciando il primo aspetto (la nuova teologia cattolica del matrimonio) in quanto già accennato in precedenza, e passando direttamente al secondo, vediamo come nella tradizione del clero bizantino l’esistenza del clero sposato si appoggia sui testi delle epistole pastorali (1Tim 3,2-3.12 e Tito 1,5-6) che presuppongono non solo che vescovi, presbiteri e diaconi siano sposati, ma che esiste una correlazione fra la loro vita familiare e la loro attività pastorale. Lungo i primi secoli ci sono stati molti attacchi all’esistenza del clero sposato, soprattutto da parte di movimenti ascetici, ma la chiesa bizantina ha sempre difeso la dignità e la legittimità del sacerdozio sposato con canoni specifici[46]. Oltre però alla difesa del clero uxorato, troviamo anche lo sviluppo di una spiritualità della coppia sacerdotale, chiamata ad essere modello della coppia cristiana. Questo aspetto della tradizione bizantina viene ripresa dal CCEO al can 374 che parla della necessaria ‘castità’ per celibi e sposati. Negli sposati la castità è la verità della visione cristiana della sessualità, non la sua negazione, come espresso nella Familiaris Consortio n. 33. Nel can 375 poi si afferma chiaramente il valore esemplare della vita familiare dei chierici sposati per tutti gli altri fedeli: “I chierici coniugati offrano un luminoso esempio agli altri fedeli cristiani nel condurre la vita familiare e nell’educazione dei figli”. Dunque il clero uxorato ha la vocazione di rappresentare l’immagine perfetta della coppia cristiana.

Ma al di là di questa esemplarità, quale è il ‘significato teologico’ della coppia sacerdotale coniugata? Come abbiamo ricordato, la teologia romana dopo il concilio (e in contraddizione con esso) ha sviluppato una dimensione teologica della connessione celibato-sacerdozio, connessione ontologica, che sembra non lasciar spazio alcuno ad una dimensione teologica del sacerdozio uxorato, ‘sopportato’ come mera prassi tradizionale. Se l’ordinazione sacerdotale configura non semplicemente a Cristo, ma a Cristo Sposo della Chiesa, allora la condizione di ‘maschio’ e di ‘celibe’ è necessaria per esprimere questa configurazione.

Afferma Petrà: “La teologia romana del celibato ha operato una mossa magistrale: ha trasformato la sponsalità di Cristo, che poteva essere la via per eccellenza di validificazione teologica del clero uxorato, nel fondamento stesso del celibato sacerdotale. Il sacerdote celibe diventa il vero segno del Cristo sposo”[47].  Si piegano i testi paolini che parlano del rapporto marito-moglie come del rapporto fra Cristo e la Chiesa, testi sponsali per eccellenza, a testi che motivano il celibato del prete. Il prete sposato allora, in quanto marito, sarebbe segno del Cristo Sposo nei confronti della Chiesa, ma in quanto sacerdote non potrebbe essere segno del Cristo Sposo perché sposato. Una interpretazione assurda.

Questi testi sponsali paolini invece sono la miglior fondazione del valore teologico del clero uxorato. Il matrimonio sacramento è segno dell’amore sponsale del Cristo per la Chiesa; nel caso del sacerdote sposato questo valore sacramentale del matrimonio stesso si espande ancora di più nel significato, lungo la stessa linea. Secondo la tradizione orientale, il matrimonio deve sempre precedere l’ordinazione e questo è visto come una continuità fra sacramento del matrimonio e sacramento dell’ordine. C’è una analogia e una connaturalità fra ‘la famiglia piccola chiesa’ e ‘la Chiesa grande famiglia’. Il sacerdote sposato allora esprime doppiamente questa sponsalità di Cristo con la sua Chiesa a partire dall’interno della propria famiglia ed estendendola alla famiglia dell’intera Chiesa. Questa connaturalità fra famiglia cristiana fondata sul sacramento del matrimonio e Chiesa è stato magistralmente espressa da Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio che diventa così la miglior fondazione teologica della condizione esistenziale del clero uxorato. La famiglia cristiana è chiamata a vivere al sua essenza di chiesa tramite l’apertura agli altri, una apertura che può essere vissuta in tanti modi, accoglienza, disponibilità, servizio, solidarietà, missione, affido, ecc. Di questa apertura della famiglia fa anche parte il servizio nella Chiesa e quindi il servizio del ministero presbiterale entra a pieno titolo in questa dimensione della famiglia cristiana, portandola al suo massimo compimento. Scrive il papa nella Familiaris Consortio che non esiste il ‘grande mistero’ che è la Chiesa e l’umanità di Cristo, senza il ‘grande mistero’ espresso nell’essere ‘una sola carne’, cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia. “Nelle sue parole – commenta Petrà – l’una è simbolo dell’altra, l’una rivela l’altra: ebbene il sacerdozio uxorato mostra per il fatto della coincidenza personale tra le due cose che esse sono con verità l’una il simbolo dell’altra, sono l’unica Chiesa che si manifesta in due forme omologhe e concentriche”[48]. Abbiamo qui dunque un significato teologico pieno e a tutto tondo per il clero uxorato.

Conclusione. Il futuro sta nel passato

“Il futuro sta nel passato”, afferma Petrà[49]. Cioè nel ritorno al Concilio. Il Concilio infatti ha posto le basi per una equiparazione di valore e teologica fra il sacerdozio celibatario e quello uxorato, definendole entrambi come vocazioni alla stessa stregua e non accettando in alcun modo di considerare il sacerdozio uxorato come una sorta di sacerdozio di serie B, come avvererebbe inevitabilmente se dovesse trionfare definitivamente la nuova impostazione  della teologia romana su sacerdozio e celibato. Per l’affermazione di questa parità fra le due vocazioni servono però due cose, la prima di ordine pratico, l’altra di carattere teorico.

Occorre in primo luogo che, nei fatti, si cominci a pensare ‘cattolicamente’ la questione, rendendo possibile un vero riconoscimento del sacerdozio coniugato. Il problema principale oggi infatti è quello delle chiese cattoliche orientali che si sono impiantate in occidente e che hanno estrema difficoltà a fare venire qui preti sposati. L’opposizione delle gerarchie della chiesa latina è per un duplice motivo: si teme che con l’affermarsi della presenza del clero sposato si possa indebolire al motivazione del clero celibatario da una parte, e dall’altra si crei confusione e scandalo tra la gente. Tutto questo è assolutamente ingiustificato: le difficoltà del celibato non sono da oggi e dipendono da ben altri fattori; inoltre il temere che  a causa della presenza del carisma del prete sposato possa scomparire il carisma del prete celibe, significa non credere affatto ai carismi come doni di Dio, far prevalere la paura sulla fede[50]. La seconda motivazione è pretestuosa, sia perché non vera, sia perché è anch’essa frutto della disinformazione e del deprezzamento del sacerdozio sposato, cosa che bisogna cambiare. È necessario inoltre, in secondo luogo, che la “teologia” stessa deve cominciare a pensarsi in maniera ‘cattolica’ e non semplicemente ‘latina’, se vogliamo davvero dar senso alla identità cattolica di una Chiesa a due polmoni. La ‘teologia romana’ in questo momento e su questo argomento non appare una teologia davvero ‘cattolica’ e questo è un controsenso.

Mi sembra chiaro che Basilio Petrà con questo suo nuovo libro dedicato al tema in questione, intende riprendere il discorso disatteso del suo precedente libro, dove già presenta e critica questa contraddittoria posizione della teologia ufficiale, e rilancia la questione contro la teologia romana imperante che, su questa tematica, dura imperterrita nelle sue posizioni sempre più intransigenti. L’impressione è che, davanti alla prospettiva di cambiamento in atto a causa dei nuovi contesti, paventando il ritorno della prassi dell’ordinazione di uomini sposati, si cerca di alzare un possente argine fatto di presunta scientificità storica (Cochini e altri) e di speculazione teologica (PDV e oltre) in modo da porre le basi per poter rendere impossibile, anche per il futuro, la scelta che viene temuta. Nello stesso senso va anche la politica del rifiuto di permettere di far venire in Italia preti cattolici sposati come ‘cappellani’ delle comunità immigrate cattoliche orientali. È la solita politica della costruzione di muri per evitare il cambiamento. Ma i muri di questo tipo sono destinati a crollare, anche se molti decenni dopo. Come il muro di Berlino.

Franco Pignotti

franco.pignotti@istruzione.it



[1] Codex Iuris Canonici, promulgato nel 1983

[2] Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, promulgato nel 1990

[3] Una di queste chiese cattoliche di rito orientale è presente da oltre cinquecento anni in Italia: la Chiesa Cattolica Italo-Albanese di Rito Bizantino, presente in Italia con due Eparchie, quella di Lungro in Calabria e quella di Piana degli Albanesi in Sicilia; e con un monastero, quello di Grottaferrata. Essa è formata dalle comunità albanesi che a metà del XV secolo si trasferirono in blocco in Italia dall’Albania per non sottostare alla conquista musulmana.

[4] Per una completa disanima dell’uso e del significato di questa espressione, vedere B. PETRÀ, Una Chiesa a due polmoni. Avventure di una metafora, in Preti sposati per volontà di Dio? Saggio su una Chiesa a due polmoni, Dehoniane Bologna 2004, pp. 15-34

[5] B. PETRÀ, Dalla latinizzazione ai due polmoni, in op. cit., pp. 7-13

[6] Elenco finale delle proposizioni  del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, Proposizione n. 23 http://www.zenit.org/article-24274?l=italian.

[7] Adista n. 84 del 2010

[8] Il mensile Jesus nella edizione del gennaio 2011, riporta questa notizia citando le autorevoli parole del cardinal Bagnasco in risposta al primate romeno monsignor Lucian Muresan: “La convenienza di tutelare il celibato ecclesiastico e di prevenire il possibile sconcerto nei fedeli per l’accrescersi di presenze sacerdotali uxorate, prevale sulla pur legittima esigenza di garantire ai fedeli cattolici di rito orientale l’esercizio del culto da parte di ministri che parlino la loro lingua e provengono dai loro stessi Paesi” Jesus, gennaio 2011, p. 29. Mi permetto solo una osservazione: per il cardinal Bagnasco sembra che il Rito Orientale si riduca al ‘sapore di casa mia’ (la lingua nazionale e preti connazionali). Davvero sconcertante sulla bocca del presidente dei vescovi italiani!

[9] S. SODARO, Keshi. Preti sposati nel diritto canonico orientale, Franco Puzzo Editore, Triestre 2000; B. PETRA’, Preti sposati per volontà di Dio? Saggio su una Chiesa a due polmoni,  ed. Dehoniane, Bologna 2004; IDEM, Preti celibi e preti sposati, Cittadella, Assisi 2011

[10] L’autore nella sua introduzione ci tiene a precisare che le Chiese Cattoliche Orientali di cui si parla in questo testo furono erroneamente definite ‘uniate’, termine con cui si intendeva anche una aperta o strisciante uniformizzazione  al rito latino di tutte quelle chiese che nei secoli XVI e XVII si erano staccate dalla loro ‘matrice’ ortodossa per ricongiungersi  al papato. Le Chiese Ortodosse, non unite alla sede di Roma, ma da cui le Chiese Cattoliche Orientali si sono staccate devono essere considerate delle vere e proprie “Chiese Madri” di queste ultime e il mantenimento dei riti originari non deve essere compreso come una ‘concessione’ da parte del papato, come è stato per troppo tempo considerato, ma un vero diritto della Tradizione ecclesiale. Da questa loro identità nasce quindi un preciso dovere della Chiesa Cattolica di Rito Latino di confrontarsi con queste tradizioni orientali che fanno parte della sua stessa identità globale, compreso la questione del prete sposato. Occorre sostituire la filosofia dell’aut aut con la filosofia dell’et et.

[11] Padre Dimitri Salachas, sacerdote cattolico orientale incardinato all’Esarcato Cattolico Bizantino di Atene, è professore di diritto canonico orientale presso le Pontificia Università Urbaniana, Gregoriana, Angelicum e Istituto Orientale di Roma; consultore  della Congregazione per le Chiese Orientali e dei Pontifici Consigli per l’Interpretazione dei Testi Legislativi e per l’Unità dei cristiani. È anche membro della Commissione internazionale mista per il dialogo teologico ufficiale tra le Chiesa Cattolica ed Ortodossa

[12] S. SODARO, op. cit, p. 21

[13] B. PETRA’, Preti sposati per volontà di Dio? “Il volume è un saggio sulla fondazione teologica del celibato sacerdotale ed esamina la riflessione elaborata dal magistero ecclesiale dal concilio ai documenti più recenti. Si apre con uno studio sull’evoluzione e sul significato del linguaggio dei ‘due polmoni’, una novità propria del magistero di Giovanni Paolo II. Fa vedere come questa immagine ponga per forza propria la questione della cattolicità del magistero e come tale questione debba essere formalmente e adeguatamente affrontata per evitare difficili compatibilità all’interno del magistero stesso. Successivamente documenta un caso di difficoltà del magistero cattolico, quello concernente la legge del celibato ecclesiastico, e discute il modo in cui esso potrebbe essere ricolto, assumendo con consapevolezza formale la cattolicità del magistero e cogliendo i punti teologici attorno ai quali l’armonia unitaria del magistero può essere ricostituita” (dalla presentazione del libro).

[14] B. PETRÀ, La norma del celibato ecclesiastico e il problema del suo cambiamento nel secolo XX, in Preti celibi e preti sposati, pp. 9-42

[15] Cfr. Familiaris Consortio, n. 54

[16] B. PETRÀ, Preti sposati e preti celibi, p. 24

[17] “In virtù della norma fondamentale nel governo della Chiesa cattolica alla quale abbiamo sopra accennato, come, da un lato, rimane confermata la legge che richiede la scelta libera e perpetua del celibato in coloro che sono ammessi agli ordini sacri, dall’altro, potrà essere consentito lo studio delle particolari condizioni di ministri sacri coniugati, appartenenti a Chiese o a comunità cristiane tuttora divise dalla comunione cattolica, i quali, desiderando di aderire alla pienezza di tale comunione e di esercitarvi il sacro ministero, fossero ammessi alle funzioni sacerdotali, in tali circostanze tuttavia da non portare pregiudizio alla vigente disciplina circa il sacro celibato. E che l’autorità della Chiesa non rifugga dall’esercizio di questa potestà lo dimostra l’eventualità, prospettata dal recente Concilio Ecumenico, di conferire il sacro diaconato anche ad uomini di matura età, viventi nel matrimonio”. (Sacerdotalis Celibatus n. 42)

[18] “L’Ordinario, per ammettere candidati agli Ordini Sacri deve ottenere il consenso del Consiglio di governo. In considerazione della tradizione ed esperienza ecclesiale anglicana, l’Ordinario può presentare al Santo Padre la richiesta di ammissione di uomini sposati all’ordinazione presbiterale nell’Ordinariato, dopo un processo di discernimento basato su criteri oggettivi e le necessità dell’Ordinariato. Tali criteri oggettivi sono determinati dall’Ordinario, dopo aver consultato la Conferenza Episcopale locale, e debbono essere approvati dalla Santa Sede”. (Anglicanorum Coetibus, Norme complementari, Art. 6. § 1.)

[19] Basilio Petrà qui rimanda per le analisi al suo libro precedente. B. PETRÀ, Il celibato tra due polmoni. Il percorso magisteriale nel pontificato di Giovanni Paolo II, in Preti sposati per volontà di Dio?, pp. 83-184, soprattutto Excursus A-F sulla Pastor Dabo Vobis pp. 136-172.

[20] In caso contrario, potremmo anche pensare che potrebbero darsi eccezioni anche al fatto che il sacramento dell’ordine debba necessariamente essere conferito solo a persone di sesso maschile, eccezione che invece non è mai stata contemplata nella tradizione della Chiesa, anche se ci sono chiese (anglicane e protestanti), oggi, che hanno posto anche questo problema.

[21] C. COCHINI, Origines apostoliques du célibat sacerdotal, Paris : Lethielleux  1981.

[22] B. PETRÀ, Preti sposati e preti celibi, p. 39. Questi autori sono: A.M. Stickler, S. Heid e R. Cholij (quest’ultimo cattolico orientale)

[23] B. PETRÀ, Preti sposati per volontà di Dio?, pp. 96-98, note 21-24

[24] Ivi, p. 40 nota 38

[25] C. COCHINI S.J., Origini apostoliche del celibato sacerdotale, Nova Millennium Romae, 2011. 2° edizione francese: Les origines apostoliques du célibat sacerdotal, ed.  Ad Solem, Genève, Paris 2006

[26] Vedi nota 22.

[27] “È giusto dire che lo storico può lavorare solo con probabilità. Così anche Cochini ha presentato una tesi con alta probabilità storica. Da questo punto di vista, la storia è un calcolo delle probabilità; non esiste alcuna sicurezza assoluta. In tale computo però, non devono essere considerati solo i testi, che forse possono non parlare chiaramente di una legge del celibato, ma uno storico deve tener conto, secondo tutte le regole dell’arte, dell’ambiente, della mentalità, dei processi della tradizione e dei meccanismi interni della vita ecclesiale, per essere moralmente certo del suo risultato. … Da parte mia non posso far altro che ripetere che la probabilità storica è davvero a favore di una tesi della continenza dei chierici dal tempo più antico tanto in Oriente quanto in Occidente. Naturalmente con ciò resta intatta la constatazione che abbiamo una documentazione di gran lunga incompleta circa tutti i periodi e tutte le regioni per i primi secoli e che la ricerca storica rimane fondamentalmente aperta a nuove acquisizioni” S. HEID, Prefazione a C. COCHINI, op. cit., p. 11. Una onesta posizione della opinabilità della tesi dunque, pur in una chiara scelta di campo, che non è la stessa di quella di Basilio Petrà.

[28] Il sinodo di Cartagine del 390, a detta dello stesso Cochini, che pure non si sa perché lo definisce nel titolo “il Concilio di Cartagine”, era stato una cosa “modesta non solo per i suoi obiettivi, ma anche per il numero e la qualità di coloro che vi parteciparono” C. COCHINI, op. cit., p. 17

[29] “Il vescovo Geneclius dice: come si è affermato in precedenza, conviene che i santi vescovi e i preti di  Dio nonché i leviti, cioè coloro che sono al servizio dei sacramenti divini, osservino una continenza perfetta, affinchè possano ottenere in tutta semplicità da Dio ciò che essi domandano; facciamo in modo,  anche noi, di conservare ciò che insegnarono gli Apostoli e che la stessa antichità ha osservato”  C. COCHINI, op. cit., p. 18

[30] Conone 13 del Concilio in Trullo, C. COCHINI, op. cit., p. 438 “Poiché abbiamo appreso che nella Chiesa di Roma si è stabilito come regola che, prima di ricevere l’ordinazione diaconale o presbiterale, i candidati promettano pubblicamente di non avere più relazioni con le rispettive mogli; noi, conformandoci all’antica regola della stretta osservanza e della disciplina apostolica, vogliamo che i legittimi matrimoni degli uomini consacrati a Dio restino in vigore anche in futuro, senza dissolvere il vincolo che li unisce alla propria sposa, né vogliamo privarli delle relazioni coniugali nei tempi opportuni. Se dunque qualcuno è ritenuto degno di essere ordinato suddiacono, diacono o presbitero, non gli sia impedito di avanzare in questa dignità per il fatto di avere una legittima moglie, né si esiga da lui, al momento dell’ordinazione la promessa di astenersi dalle lecite relazioni con esse; diversamente insulteremmo il matrimonio istituito dalla legge di Dio e benedetto dalla sua presenza […]. Sappiamo d’altra parte che i Padri riuniti a Cartagine, come misura precauzionale per la serietà dei costumi dei ministri dell’altare, hanno deciso che ‘i suddiaconi, i quali entrano in contato con i sacri misteri, come pure i diaconi e i presbiteri, si astengano dalla propria moglie durante i periodi che sono specificamente assegnati loro”.

[31] J.M.CASTILLO, Simboli di libertà. Analisi teologica dei sacramenti. Cittadella, Assisi 1981 p. 106

[32] J.M.CASTILLO, op. cit., p. 128

[33] Ivi, p. 129. Si era in questo modo completato un percorso con l’identificazione dei ministri cristiani con i sacerdoti antichi.

[34] C. BONIVENTO, Il celibato sacerdotale. Istituzione ecclesiastica o tradizione apostolica? Un vescovo ai suoi diaconi e sacerdoti, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007

[35] B. PETRÀ, La contraddittorietà dell’obbligazione celibataria nella coscienza ‘cattolica’ della Chiesa. Lex continentiae o Lex castitatis, in Preti celibi e preti sposati, pp. 43-58

[36] Troviamo piena concordanza su questa prospettiva sia nei canoni del CIC (can. 204 §1-2; can. 205) che in quelli del CCEO (can. 7 § 1-2)

[37] Cfr. B. PETRÀ, Dal Concilio ad oggi. I Problemi di un magistero polimorfo, in Preti sposati per volontà di Dio?, pp. 185-232

[38] Abbiamo visto nell’excursus la problematicità e contestabilità delle affermazioni di Cochini a riguardo del Sinodo di Cartagine del 390 e del Concilio in Trullo del 691.

[39] B. PETRÀ, Preti celibi e preti sposati, p. 53 nota 11

[40] Can. 277 – §1. I chierici sono tenuti all’obbligo di osservare la continenza perfetta e perpetua per il regno dei cieli, perciò sono vincolati al celibato, che è un dono particolare di Dio mediante il quale i ministri sacri possono aderire più facilmente a Cristo con cuore indiviso e sono messi in grado di dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini.

[41] Can. 1037 – Il promovendo al diaconato permanente, che non sia sposato, e così pure il promovendo al presbiterato, non siano ammessi all’ordine del diaconato, se non hanno assunto, mediante il rito prescritto, pubblicamente, davanti a Dio e alla Chiesa, l’obbligo del celibato oppure non hanno emesso i voti perpetui in un istituto religioso.

[42] Can. 373. Il celibato dei chierici, scelto per il regno dei cieli e tanto conveniente per il sacerdozio, deve essere tenuto ovunque in grandissima stima, secondo la tradizione della Chiesa universale; così pure deve essere tenuto in onore lo stato dei chierici uniti in matrimonio, sancito attraverso i secoli dalla prassi della Chiesa primitiva e delle Chiese orientali. Can. 374. I chierici celibi e coniugati devono risplendere per il decoro della castità; spetta al diritto particolare stabilire i mezzi opportuni da usare per raggiungere questo fine.

[43] B. PETRÀ, Preti celibi e preti sposati, p. 58

[44] IDEM, In ascolto del concilio, in Preti celibi e preti sposati, pp. 59-80

[45] B. P PETRÀ, Oltre il Concilio. Alla ricerca del significato teologico del sacerdozio uxorato, in Preti celibi e preti sposati, pp. 81-98

[46] Can. 4 del concilio di Gangra (prima metà seco. IV, Anatolia); Can 5 dei Canoni Apostolici (sec. IV ambiente siriaco); Can 13 del Concilio in Trullo che reagisce contro l’imposizione romana della lex continentiae.

[47] B. PETRÀ, Preti celibi e preti sposati, p. 89

[48] B. PETRÀ, Preti celibi e preti sposati, p. 97

[49] IDEM, Il futuro sta nel passato: il Vaticano II, in Preti celibi e preti sposati, pp. 99-106

[50] Scrive l’autore: “Un timore davvero strano, quello per il quale si teme che il celibato – un dono divino – sparirebbe totalmente o quasi con la caduta dell’obbligo celibatario: segno di fede o di mancanza di fede? La Chiesa però dovrebbe sapere bene, fin dalle sue origini, che se il timore vince e la fede poggia non sulla fedeltà al Signore e sulla sua chiamata ma su considerazioni umane, troppo umane, le acque allora non sostengono più il suo cammino e le onde si abbattono minacciose su di essa. Solo la fede acquieta le acque e le rende percorribili.” B. PETRÀ, Preti sposati per volontà di Dio?, p. 234

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